Un grande dispendio di mezzi è quello che impegna al giorno d'oggi i medi e grandi imprenditori, in Europa e nel mondo. Non si tratta più di ponderare tra rischio e rendimento, e di resistere all'attrazione fatale di un mercato sempre più monopolizzato: la vera sfida, piuttosto, è decidere a quale gigante internazionale di turno passare la 'patata bollente'. E così, quando a incalzare è il capitale finanziario o quello dei grandi gruppi stranieri, ecco che tutti fanno a gara, si scavalcano l'un l'altro, si lasciano titillare dalle migliori offerte.

Farsi comprare è diventato per le aziende l'unico orizzonte per sopravvivere - per comprare, cioè, a loro volta altre aziende. E non solo: il diktat del mercato e della produttività aziendale è vieppiù quello su cui si regge il recupero di rapporti di falsa 'cooperazione' tra Stati e autorità politiche e militari. Un'occasione più unica che rara per affidare la propria politica nazionale ai solipsismi dell'interesse privato tra aziende 'interne' e 'straniere' - l'Italia ne sa qualcosa.

Trionfa ancora l'Eldorado dei 'Signori del petrolio'

Ma una cosa per volta. Sulla piazza si registrano di nuovo cospicui movimenti nell'ambito delle offerte sul petrolio. Tra le ultime acquisizioni spicca quella della francese Total: l'operazione costata alla compagnia petrolifera 7,45 miliardi di dollari, riguarda la danese Maersk Oil & Gas, un controllo (in realtà una parziale 'fusione') che consentirebbe al colosso francese di aumentare la produzione dei barili (+160'000 previsti entro il 2018) fino a diventare il "secondo operatore nel Mare del Nord".

D'altra parte, dopo la caduta dei prezzi del petrolio tre anni fa (oggi sotto i 50 dollari a barile), il mercato non potrebbe mostrarsi più propizio: a sentire Patrick Pouyanné, ceo di Total, "lanciare nuovi progetti o acquistare nuove riserve a prezzi attraenti" sarebbe ora la posta in gioco per chi ha dollari di troppo ed è in cerca di nuovi affari.

In contemporanea, la russa OJSC Rosneft ha inglobato il 49,13% dell'indiana Essar Oil, lasciando ad essa azioni per un valore di 13 miliardi di dollari. Il maggiore gruppo petrolifero russo potrà contare su raffinerie di ultima generazione e su un mercato in continua espansione, garantendo inoltre ottime relazioni tra Mosca (che tra l'altro detiene la quota di maggioranza della società) e Nuova Delhi.

Soprattutto perché, in India, Goldman Sachs prevede un aumento della domanda di petrolio del 5,9% annuo nei prossimi tre anni.

Ed è guarda caso lo stesso mostro di wall street ad aver chiesto e ottenuto da Riad il via libera sulla compravendita azionaria (trading) e sulla titolarità a gestire conti e fondi d'investimento, mercé una distensione dei rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita che risale all'affare da 110 miliardi di dollari, diretto da Trump in collaborazione con l'ad di Blaskstone Stephen Schwarzman, per la vendita di armi a Riad in associazione con Londra (e quindi con la City), anch'essa rimunerata per 3,3 miliardi di sterline.

I governi temono (ma non disdegnano) l'appoggio del grande capitale

In breve, l'intesa economica fra privati (tanto più se legati al petrolio) non solo favorisce, ma anche prepara il terreno per le relazioni politiche. Essa è il fine di ogni accordo diplomatico tra potenze, del partenariato internazionale tra soggetti politici, anche in vista di specifici obiettivi 'interni'. Per questo, il nesso tra governi e imprese (e, in generale, tra pubblico e privato) si è fatto via via più stretto.

Il giornalista e scrittore libertarian Alberto Mingardi osserva su La Stampa (22 agosto) come il vero problema per gli imprenditori europei consista nelle "preoccupazioni dei governi tedesco, italiano e francese" in ordine al rischio di essere condizionati nella loro politica da azionisti 'esteri' specie nel caso si tratti di "fondi sovrani e imprese a controllo statale" il cui interesse sia dettato da "investimenti [di lungo termine] decisi per ragioni extra-economiche".

La risposta da parte dello Stato non deve né può più essere improntata al protezionismo, ma, all'opposto, all'apertura delle aziende a 'obiettivi' puramente economici offerti ad una "platea" di investitori più ampia. Crescere è dunque possibile, ma ciò non significa che si debbano spalancare le porte all'ignoto, quanto piuttosto che "più interessanti dovrebbero essere le condizioni che offre non solo l'impresa ma tutto il Paese".

Mingardi, per non mancare di giudizio, arriva addirittura ad attribuire ai governi ragioni come 'timore' e 'sospetto' per qualcosa che, in realtà, sanno ben discernere. E trascura il fatto che la politica si è sempre più specializzata col tempo nel subodorare le occasioni più propizie, valutando su base utilitaristica gli investimenti che a tempo e luogo poteva giovarle per obiettivi di consenso e intercettando gli affari e i movimenti di capitale più allettanti.

Non è stato forse Renzi, nel presentarsi simbolicamente come grande "rottamatore", a cercare - non è certo una novità - l'appoggio della finanza? E non ha forse Macron capito l'antifona cooptando letteralmente agli interessi della sua immagine di "presidente startupper" uomini del calibro di Xavier Niel, fondatore di Minitel, per investire nel settore dell'hi-tech e favorire così la nuova occupazione digitale?

Le aziende sprecherebbero il loro tempo a mostrarsi più interessanti all'estero coinvolgendo nei loro affari - come sostiene Mingardi - l'intero Paese: da una parte ci pensa già lo Stato a tutelare sul mercato quelle su cui sia stato utile per gli attori politici fare affidamento; e, d'altra parte, quegli stessi attori politici manifestano tutta la loro impotenza in fatto di tutela dell'interesse nazionale, cui puntualmente antepongono quello privatistico di imprese che ne hanno condizionato positivamente l'ascesa e dal business delle quali, in conseguenza a ciò, si trovano a dipendere.

La buona riuscita degli affari economici nuoce alla pubblica utilità

E' un'illusione credere che siano i governanti a muoversi di loro volontà, se non per favorire gli interessi economici di cui sopra. Anche nel caso in cui gli affari economici possano andare avanti solo a garanzia di una situazione politica stabile e ben assestata, è sempre in nome - e quindi alle dirette dipendenze - di questi stessi interessi economici, squisitamente ritagliati intorno al profitto di pochi, che la politica è in certo modo 'costretta' a ricercare e perseguire la pace. Il tutto non senza ledere, com'è intuibile, l'interesse stesso della comunità. Anziché indirizzare l'attività economica (in questo caso privata) verso "fini sociali" (secondo l'art.

41 comma 3 della Costituzione italiana), il governo italiano si fa garante di affari miliardari tra pezzi grossi dell'aristocrazia finanziaria che nulla hanno a che vedere, ed anzi confliggono, con la vera utilità sociale. Quello che sta facendo il nostro governo è quindi addirittura incostituzionale: basti un esempio per avere chiaro quest'ultimo punto.

In Egitto, in occasione dell'assemblea generale di Petrobel e Petro Shorouk, il ministro egiziano del Petrolio e delle Risorse Minerarie Tarek El Molla ha definito l'italiana Eni un "partner strategico nel settore petrolifero", in riferimento allo sfruttamento dei grandi giacimenti, come quello offshore di gas naturale di Zohr individuato ad agosto 2015 proprio dall'Eni.

"Lo sviluppo del giacimento - ha dichiaro El Molla - porterà a un incremento della produzione e a coprire una parte del consumo locale", per cui finora è stato colmato l'83,5% dei lavori previsti con un investimento totale di 4 miliardi di dollari. I rapporti intrattenuti da Eni col Cairo nel rifornimento di gas e petrolio portano giornalmente a simili profitti. Ma, a distanza di un anno e mezzo dalla morte di Giulio Regeni, l'opinione pubblica italiana - spiega il Fatto - è ancora in attesa di risposte sul caso proprio per la "scarsa decisione con cui l'Italia", distolta dai 'mega affari' tra Eni e l'Egitto, "chiede chiarezza".