La riforma delle Pensioni ormai è nel vivo, anche se al dire il vero sembra un abuso chiamarla così. Infatti si tratta di valutare correttivi sulla proposta di flessibilità del Governo, l’APE che sembra ormai l’unica via per concedere l’uscita anticipata dal lavoro. Se l’APE monopolizza l’attenzione dell’opinione pubblica, non si possono non considerare importanti anche altri provvedimenti che dovrebbero far parte del pacchetto previdenziale da inserire nella manovra di autunno. Eccoli in sintesi e come cambieranno se davvero si metterà mano alla previdenza italiana.

Che piaccia o no, la flessibilità passa per l’APE

Niente di nuovo dal punto di vista della flessibilità in uscita, tutto fermo all’APE, nonostante i contrari crescano giorno per giorno. Pensione anticipata a partire dai 63 anni e 7 mesi, erogata dall’Inps ma di fatto concessa come un finanziamento da parte di una banca. Assegno quindi incassabile subito dai pensionati che hanno quella età e almeno 20 anni di contributi, ma che va restituito in rate mensili per 20 anni dopo aver raggiunto i 66 anni e 7 mesi per la vecchiaia. Interessi, spese di assicurazione per il caso premorienza del pensionato in anticipo, sono i nodi da sciogliere su questo nuovo istituto. Nei prossimi incontri sul tema, si prevede possano emergere alcuni correttivi, soprattutto quelli relativi alle detrazioni fiscali, che dovrebbero ridurre o addirittura azzerare il costo di questa operazione bancaria sui pensionati con assegni bassi.

La calibratura di questi sconti fiscali sarà molto importante perché sarà in base a questi che verrà calcolata la rata trattenuta sulle pensioni.

Perequazioni per fasce, si torna al 2000?

Oltre all’APE, sono molti i temi caldi su cui il Governo e le parti sociali, soggetti interessati dalle varie riunioni già svolte e in quelle messe già in agenda, sono chiamati a discutere.

Uno di questi è il meccanismo della perequazione, cioè l’adeguare gli assegni già in essere al tasso di inflazione, cioè al costo della vita. La perequazione è balzata agli onori della cronaca lo scorso anno, quando la Consulta reputò incostituzionale il blocco delle pensioni a partire da quelle pari a tre volte il minimo. La sentenza del 2015 ha prodotto il Bonus Poletti, i rimborsi una tantum previsti dal DL 65/2015.

I sindacati spingono affinché i mini rimborsi vengano implementati come importo e soprattutto che vengano estesi anche a chi non ha ricevuto niente. La perequazione oggi viene effettuata distinguendo i pensionati in 5 fasce, come stabilito dal Governo Letta. È già previsto però che dal 2019, si tornerà alle 3 fasce in uso dal 2000 con la Legge 338 e questo è quello che il Governo intende applicare. Fino al 2011 infatti le pensioni fino a cinque volte il minimo venivano incrementate di un importo pari al 90% del tasso di inflazione, mentre quelle più alte al 75%. Con la Fornero ci fu il blocco della perequazione che la Consulta e poi il Bonus Poletti hanno risolto risolto erogando alle pensioni fino a 3 volte il minimo il 100%, il 40% per quelle fino a 4, il 20% fino al 5 e via via a scendere allo zero assoluto per le pensioni oltre le 6 volte.

Tornare a come funzionava a prima della Fornero sarebbe già una ottima notizia. Il confronto poi sarà incentrato sui Caregiver, sui precoci e sui lavori usuranti . SU questi temi c’è la durezza di posizione della CGIL che vuole un anno in più di anticipo sulla flessibilità e soprattutto eliminare le banche dall’APE. La UIL e la CISL invece sarebbero anche d’accordo a inserire penalizzazioni di assegno sostenibili dai pensionati che anticipano l’uscita dal lavoro. La condizione però è che i risparmi derivanti dal sacrificio chiesto ai pensionati, vengano destinati proprio agli altri problemi prima citati ed alle ricongiunzioni onerose da rendere meno gravose per chi, come i giovani, hanno il problema serio delle carriere discontinue.