Nel sistema previdenziale italiano, dal 2017 entra in vigore l’APE, l’anticipo pensionistico. La grande novità sulle Pensioni è accompagnata come sempre in questi casi, da dubbi e perplessità e da feroci critiche. La novità è importante perché consente di andare in pensione con largo anticipo rispetto alle norme in vigore oggi. SI tratta di una opzione che consente di lasciare il lavoro a 63 anni anche se la formula è assolutamente nuova e strana per il nostro mondo previdenziale. Una cosa però che deve essere chiara è che di fatto, l’APE non sostituisce la Legge Fornero, ma ne allevia solo l’impatto.

L’APE non vuol dire riforma delle pensioni

L’anticipo pensionistico è una misura che riguarda essenzialmente la pensione di vecchiaia. Infatti essa prevede che un lavoratore, una volta raggiunti i 20 anni di contributi e naturalmente i 63 anni di età, potrà chiedere all’INPS di andare in pensione. L’anticipo quindi serve per non dover arrivare necessariamente a 66 anni e 7 mesi come le attuali regole della pensione di vecchiaia pretendono. Evidente che l’APE nulla corregge di quella che ancora oggi è la Legge vigente, quella Fornero. Inoltre, l’anticipo è concesso grazie all’ingresso di soggetti terzi nella Previdenza italiana. Si tratta delle banche che erogheranno i soldi necessari per mandare in pensione anticipata i lavoratori.

Più che di pensione, si tratta di un prestito che i lavoratori riceveranno dalle banche e che dovranno restituire una volta raggiunti i requisiti per la vera e propria pensione. Proprio questo è il nocciolo della questione, il punto che anche alla CGIL non piace, il meccanismo del prestito. Se è vero infatti che i beneficiari dell’APE social, su cui ancora si lavora per definire bene i soggetti che vi rientreranno, non subiranno tagli di assegno, resta altrettanto vero che per chi sceglierà autonomamente di lasciare il lavoro senza esservi costretto da disagi particolari, il salasso sarà grande.

Tra rata del prestito, minori contributi versati e tagli vari, si rischia di perdere anche il 20% della pensione.

Requisiti raggiunti al 2012

Oltre che le pesanti soglie di uscita dal lavoro stabilite dall’ultima riforma previdenziale della Fornero, restano in vigore anche le scorciatoie e gli scivoli esistenti oggi. Parliamo per esempio della famosa quota 96, uscita anticipata a 64 anni e 7 mesi per coloro che la hanno raggiunta entro il 2012.

SI tratta dei benefici che una disposizione eccezionale del DL 201 del 2011 lasciò ai lavoratori. Di fatto, nonostante le norme previste dal quel decreto, innalzavano pesantemente i requisiti di accesso alla quiescenza, a tutti coloro che avevano 35 anni di contributi e 61 anni di età (anche 36 di contributi e 60 di età), al 31 dicembre 2011, venne congelata la possibilità di lasciare il lavoro a 64 anni e 7 mesi. A molti di questi soggetti è venuto il dubbio che per via dell’ingresso dell’APE nel panorama previdenziale nostrano, quel diritto acquisito venisse revocato. Non sarà così e pertanto, se nel 2017, un soggetto che al 31/12/2011 ha raggiunto la quota 96, resta la possibilità di lasciare il lavoro senza penalità e soprattutto senza indebitarsi con una banca.

Per questo scivolo però, va ricordato che resta in piedi il requisito aggiuntivo della continuità lavorativa al 28 dicembre 2011, cioè bisognava risultare occupati a quella data, non in disoccupazione o senza lavoro. Particolare vincolo anche per chi abbia raggiunto la quota 96 cumulando periodi di lavoro in diverse casse previdenziali. Nei casi di soggetti che magari avevano versamenti come lavoratore autonomo, prima di aver trovato lavoro come dipendenti privati, bisognerà sempre entro il 2012, aver raggiunto quota 97. Questa uscita anticipata inoltre, non si applica a tutti i lavoratori, ma solo a quelli del settore privato. La possibilità è ancora più interessante per le donne perché a loro la deroga lasciò il limite dei 20 anni di contributi con 60 anni di età.