Negli ultimi giorni si è sentito parlare, sul versante occupazionale, di un fenomeno che, in Italia, sembra quasi essere all'ordine del giorno: la delocalizzazione delle imprese. Su questo punto, il neo ministro del lavoro, Luigi Di Maio, in un messaggio su Facebook, ha insistito per qualche minuto, ritenendo di fondamentale importanza abbattere questo fenomeno e lottare per far sì che le aziende italiane restino nella terra nella quale sono nate, in particolar modo quelle che sono state finanziate dalle casse dello Stato.

La promessa di Luigi Di Maio

'Bloccare i contributi alle aziende che intendono delocalizzare' è la promessa del neo ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, che, nella sua recente trasferta nel Sud Italia (Brindisi, Avellino e altre località) ha avuto modo di constatare come quello della delocalizzazione rappresenti un problema che sta portando all'asfissia un'ingente quantità di lavoratori che, da tempo ormai, vivono nella più totale disperazione.

Tuttavia, il versamento dei contributi alle aziende che intendono spostare la propria produzione altrove, in territori non appartenenti all'Unione Europea, è il punto intorno al quale già la Legge di Stabilità per il 2014 si è soffermata attentamente e cautamente negli interessi dei lavoratori.

La suddetta Legge stabilisce che ogni impresa che ha ricevuto i contributi direttamente dallo Stato che intende delocalizzare al di fuori dell'Unione Europea, entro tre anni dalla concessione degli stessi, non ha più il diritto di possedere tali benefici ed è tenuta a restituire il capitale ricevuto. Ma cosa si intende per 'delocalizzazione'?

La delocalizzazione

Il termine 'delocalizzazione' sta a indicare la scelta di grandi e piccoli gruppi industriali di trasferire la propria produzione all'estero, dove il costo del lavoro è molto più basso (addirittura fino al 75%), se lo si pone in comparazione alla paga di un lavoratore italiano.

Strutture come fabbriche, call center e simili, nel momento in cui approdano in altri territori, danno origine ad una ripercussione negativa, quella di diminuire drasticamente il livello occupazionale.

Le imprese si dirigono principalmente verso l'Est Europa, la Cina, e anche verso i Paesi in via di sviluppo, nei quali la regolamentazione del mercato del lavoro potrebbe persino risultare completamente assente. Eccone degli esempi: Wind ha i propri stabilimenti in Albania, Tunisia, Romania, Turchia (e fornisce lavoro a circa 600 lavoratori). Lo stesso dicasi per i marchi Calzedonia e Benetton, i cui stabilimenti si trovano in Bulgaria e Croazia, per Bialetti che fabbrica in Cina. Infine, la FIAT che possiede impianti aperti anche in Polonia, Brasile, Argentina.