Sulla base di quanto esposto, per concludere, vorrei proporre alcune brevi osservazioni sul fenomeno della contestazione Politica, intesa come la reazione organizzata alla violenza esercitata dal dominio autoritario(1). La contestazione, come suggerisce l’etimologia latina, è una testimonianza condivisa. Oggi questa esperienza sociale assiologicamente connotata è sempre più confinata ai margini, e forse sarà ben presto destinata a scomparire del tutto dallo spazio pubblico, proprio a seguito della crisi radicale della democrazia intesa tanto come libera interazione tra organismo e ambiente(2) che come partecipazione collettiva al bene comune.
Le ragioni di questa resa storica le intuì già Herbert Marcuse in una sua conferenza tenuta all’Università di Stanford il 4 maggio del 1965, ammettendo con lucidità che nella società centralizzata da sistemi di controllo sempre più sofisticati «le masse, che certamente esistono, sono il prodotto e l’oggetto di tale controllo e amministrazione; in quanto prodotto e oggetto di amministrazione esse divengono a loro volta attive e rumoreggianti, e determinano le politiche che i loro controllori e amministratori vogliono che esse determinino.
Tale controllo sta gradualmente raggiungendo l’entità di un’amministrazione totale che (e questo è un ulteriore nuovo elemento storico) che opera mediante la direzione dell’enorme apparato tecnico e tecnologico di produzione e distribuzione e comunicazione»(3). Ma il punto della riflessione marcusiana che risulta ancora più attuale riguarda l’osservazione che la società industriale avanzata non è definita tanto dalla razionalità tecnologica bensì «dal blocco, dall’arresto e dal pervertimento della razionalità tecnologica – o, in sintesi, dall’uso della tecnologia come strumento di repressione, come strumento di dominio»(4).
Il protagonista di questa repressione non è più il vecchio padre, sostituito adesso dalla figura «ridicola» del moderno «papà», ribatte criticamente Marcuse, ma un nuovo principio di realtà che le nuove generazioni impongono a questo papà depotenziato attraverso i media ed i loro rappresentanti. È a questo livello che può imporsi ancora oggi in modo surrettizio la violenza politica – che è insieme linguistica, spazio-temporale ed etico-politica – per ridurre al minimo la possibilità della contestazione, soprattutto perché quest’ultima include l’esperienza del conflitto sociale come funzionale alla costruzione di un’identità collettiva più stabile e durevole nel tempo: in una parola, più democratica.
Eppure, mentre tale identità plurale guarda alla pace e al pianeta, all’interno di una realtà ancora «in conflitto aperto e totale con la propria ideologia e con le proprie promesse»(5), le grandi masse iper-tecnologizzate del pianeta restano ancora impotenti di fronte a questo imprescindibile compito etico e finanche pedagogico:
«Imparare a vedere e a pensare in modo indipendente, e a incrinare il potere dell’informazione e dell’indottrinamento standardizzati e imposti. Aiutare la gente a portare a compimento quest’opera, che costituisce uno degli assunti sui quali si è fondata la civiltà occidentale – il pensiero libero, indipendente, l’autodeterminazione dell’esistenza –, fare in modo che la gente comprenda di poter imparare, o almeno sforzarvisi»(6).
Ebbene, se è auspicabile un destino per la democrazia, fondata sull’«auto-posizione dell’io nel noi e per il noi» (parafrasando un po’ Hegel), occorre ripensare dalle fondamenta anche il rapporto tra una corretta comunicazione politica e un’opinione pubblica competente (che ne è il diretto correlato).
Perché la democrazia si fonda necessariamente sulla pratica del «dare e richiedere ragioni». Ciò rappresenta senza dubbio uno dei problemi di maggiore attualità se teniamo ancora ad un futuro per la democrazia. Soprattutto perché dall’interazione dialettica tra io e noi dovrebbe essere ricostruito lo «spazio sociale della ragione» (T. Pinkard)(7), che è soprattutto uno «spazio logico delle ragioni».
In questa prospettiva (che non è solo spaziale ma anche temporale), non è possibile prescindere dal porre una questione «normativa» per la democrazia, laddove entra in gioco l’esercizio pratico, effettivo, della libertà individuale e collettiva. Ma all’interno di quella dimensione normativa della comunicazione politica rientrano anche le componenti empatiche ed emotive, che pure sono presenti nella propaganda strumentale, che spesso fa un grande uso sociale della paura.
Eppure, malgrado tutto, anche la comunicazione politica democratica resta a suo modo una grande narrazione, proprio in quanto alle sue origini conserva la viva dialettica tra mythos e logos. Forse il problema più inaggirabile sta proprio in quella dialettica originaria, che molto sta condizionando anche la percezione dell’epoca presente e dunque il destino stesso della democrazia, come nel caso del controverso rapporto, nella realtà pandemica, tra comunicazione scientifica e comunicazione politica.
Leggi l'episodio precedente: la democrazia davanti alla violenza etico-politica
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Note:
1. Cfr. H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, trad. it. di S. Giacomoni, Mondadori, Milano 1972.
2. Imprescindibile al riguardo K. Goldstein, Bemerkungen über die Bedeutung der Biologie für die Soziologie anlässlich des Autoritätsproblems, in M. Horkheimer, E. Fromm, H. Marcuse, Studien über Autorität und Familie. Forschungsberichte aus dem Institut für Sozialforschung, Dietrich zu Klampen Verlag, Lüneburg 1963, pp. 656-668.
3. H. Marcuse, Il contenimento del mutamento sociale nella società industriale, in Id., Scritti e interventi, vol. III: La società tecnologica avanzata, a cura di R. Laudani, postfazione di S.
Petrucciani, Manifestolibri, Roma 2008, p. 168.
4. Ibid.
5. Ivi, p. 178.
6. Ibid.
7. Cfr. T. Pinkard, Hegel’s Phenomenology. The Sociality of Reason, Cambridge University Press, Cambridge 1994; trad. it. a cura di A. Sartori e I. Testa, Mimesis, Milano 2013.