I bilanci societari sono oggetto di attenta analisi da parte dell'amministrazione finanziaria, come sa qualunque studente universitario al primo anno del corso di Laurea in Economia e Commercio. E sulla base dei controlli, anche automatizzati, eseguiti dall'Agenzia delle Entrate vengono effettuati i cosiddetti accertamenti fiscali nei confronti di imprenditori ed aziende. Recentemente la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi intorno a questo tema assai spinoso aprendo alla possibilità che l'amministrazione finanziaria adotti un approccio più severo nell'effettuazione di questi controlli.

Con l'Ordinanza n° 31814/2019 della Quinta Sezione Civile depositata ieri 5 dicembre 2019, in estrema sintesi, il Supremo Collegio ha stabilito che in tema di accertamento fiscale questo risulti perfettamente legittimo in quanto sia stata acclarata una condotta antieconomica da parte dell'imprenditore o della sua azienda e nonostante la Società stessa presenti un piccolissimo attivo di bilancio.

I fatti che hanno dato origine al contenzioso

Il Supremo Collegio si è trovato di fronte al ricorso presentato da una Srl, operante nel settore delle ferramenta, che si era vista notificare dall'Agenzia delle Entrate un avviso di accertamento per mancato pagamento dell'Ires su un valore accertato di maggiori ricavi per un importo di 86.555,00 euro.

L'amministrazione finanziaria aveva presentato tutte le prove a sostegno di una gestione antieconomica della Srl nonché una evidente situazione di anormalità rispetto alla normativa regolamentare degli studi di settore. Non solo ma il reddito d'impresa era estremamente esiguo e ammontava a poco più di 10.000 euro mentre i costi dichiarati dalla società erano estremamente elevati.

La Srl aveva contestato la pretesa tributaria dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli che aveva accolto le sue ragioni e annullato l'atto impositivo. Di conseguenza, l'Agenzia delle Entrate proponeva ricorso contro la decisione della C.T.P. di Napoli davanti alla Commissione Tributaria Regionale della Campania.Quest'ultima ribaltava completamente quanto deciso dalla C.T.P di Napoli sostenendo che l'amministrazione finanziaria aveva fondatamente ritenuto che sussistessero gravi e numerosi indizi presuntivi di inattendibilità delle risultanze contabili.

E tali indizi, non collegati direttamente agli studi di settore, giustificavano l'emissione di un atto di accertamento in base al disposto dell'articolo 39, comma 1, lettera d, del DPR 600/73. La C.T.R della Campania sosteneva che nonostante la contabilità dell'azienda fosse formalmente corretta poteva ben sostenersi, come aveva fatto l'Agenzia delle Entrate, che la gestione di fatto era anti-economica. Di conseguenza, la Srl presentava ricorso per Cassazione contro tale decisione.

La decisione della Suprema Corte

Di fatto la Srl ricorrente ha basato il suo ricorso sulla erronea o falsa applicazione, in primo luogo, dell'articolo 10, comma 3 bis, della Legge n° 146/98. Tale norma obbliga l'amministrazione finanziaria, prima di procedere ad emettere un avviso di accertamento nei confronti del contribuente, ad esperire il tentativo di contraddittorio.

Cosa che, secondo la società ricorrente nel caso specifico non si sarebbe verificata. Inoltre, la società ricorrente ha sostenuto che la C.T.R. della Campania avrebbe applicato erroneamente quanto disposto non solo dall'articolo 39, comma 1, lettera d), del DPR 600/73, ma anche il successivo articolo 40 disciplinante le "Disposizioni comuni in tema di accertamento delle imposte sui redditi". Oltre alla erronea applicazione degli articoli 2729 e 2697 del Codice Civile. Questi regolano il primo le cosiddette "Presunzioni semplici" mentre il secondo articolo citato disciplina l'"Onere della Prova". Per la società ricorrente la C.T.R della Campania non avrebbe rispettato i requisiti di gravità, precisione e concordanza necessari per avallare l'avviso di accertamento dell'Agenzia delle Entrate con indizi validi dal punto di vista legale.

Infine la società ricorrente ha contestato la erronea o falsa applicazione dell'articolo 62 sexies, terzo comma, del Decreto Legge 331/93 che disciplina l' "Attività di accertamento nei riguardi dei contribuenti obbligati alla tenuta delle scritture contabili". Tale norma afferma che gli accertamenti fiscali possono essere fondati sull'esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta o dagli studi di settore. In merito a ciò, secondo la società ricorrente la C.T.R avrebbe violato o falsamente applicato l'articolo 112 del Codice di Procedura Civile che in tema di "Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato" impone al giudice adito di pronunciarsi su tutta la domanda non andando oltre i limiti di essa.

Secondo la ricorrente, infatti, la C.T.R avrebbe mancato di pronunciarsi su un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

La Corte di Cassazione nel rigettare il ricorso presentato dalla Srl specifica, in via preliminare, che in un giudizio impugnatorio è onere di colui che presenta il ricorso procedere a fornire una critica motivata delle affermazioni del giudice contestato. Cosa che, nel caso di specie, non si sarebbe verificata. Infatti, le critiche della ricorrente erano rivolte principalmente alla condotta processuale dell'Agenzia delle Entrate e non all'Organo giudicante. Di conseguenza, il motivo, per la Suprema Corte, sarebbe inammissibile.

Per quanto riguarda la presunta erronea o falsa applicazione dell' articolo 10, comma 3 bis, della Legge 146/98, il Supremo Collegio fa notare come da una lettura anche sommaria del comma 1 di detto articolo, richiamato direttamente anche dal comma 3 bis, l'obbligatorietà del contraddittorio preventivo tra contribuente e amministrazione finanziaria sussiste solo nel caso in cui l'accertamento fiscale sia basato esclusivamente sugli studi di settore, mentre nel caso specifico è pacifico e non contestato dalla ricorrente che l'accertamento fiscale a cui è stata sottoposta la stessa ricorrente era basato anche sugli studi di settore e non solo.

Quindi l'amministrazione finanziaria non era obbligata ad avviare un contraddittorio preventivo.

Nel caso specifico la C.T.R ha evidenziato come gli studi di settore sono stati solo un mezzo che ha consentito all'Agenzia delle Entrate di avviare un analisi più approfondita che ha evidenziato indizi rivelatori di un'operatività economica non dichiarata e, per di più, di una gestione profondamente anti-economica. A nulla rilevando, secondo la Corte di Cassazione, il fatto che l'azienda abbia chiuso il proprio bilancio in attivo, anche se di pochissimo. Per la Suprema Corte, l'anti- economicità della gestione di un'impresa non può verificarsi solo quando essa concluda il proprio esercizio annuale con una perdita, ma anche quando, come nel caso di specie, chiuda il bilancio con un utile talmente esiguo a fronte degli ingenti investimenti sostenuti, tali per cui il rischio di impresa da assumere verrebbe giudicato estremamente sconveniente. Per questi motivi il ricorso è stato rigettato.