Siamo in Svezia, anni ’70, e la nostra nazione si situa nell'angolino in alto a destra di tutti i grafici sulla qualità della vita. Nel nostro sconfinato strato nordeuropeo: sanità, istruzione, qualità del lavoro e ricchezza non hanno eguali nelle altre nazioni che tentano in questo periodo di stabilire efficaci politiche di welfare.
Ma la Svezia non si accontenta di questo primato e decide di attuare una modifica che cambierà per sempre l’assetto della sua società: favorire l’indipendenza dei figli dai genitori, degli anziani dai figli adulti e delle donne dagli uomini; ecco nascere “La famiglia del futuro” che si basa sul presupposto che, libere da vincoli, le persone abbiano la possibilità di stringere relazioni solo con chi desiderano.
“Ogni individuo dovrà essere considerato come autonomo, non come l'appendice di qualcun altro. È dunque necessario creare le condizioni economiche e sociali che ci renderanno finalmente individui indipendenti” (Manifesto del Partito Socialdemocratico svedese, 1972)
Sembra una buona idea. Anche allora lo sembrava, e la forte leadership al governo - con la fiducia di buona parte della popolazione - fece in modo che la "Teoria svedese dell'amore" (così come la chiama Erik Gandini, autore di un film-documentario sull’argomento) divenisse legge nel 1972 e da allora venne applicata ligiamente.
Le attuali conseguenze
Ora, dopo qualche decade, siamo in grado di apprezzarne i risultati: la posizione nelle classifiche socioeconomiche della Svezia è rimasta piuttosto alta, ma lo Stato scandinavo ha guadagnato anche altri primati per quel che riguarda la qualità della vita:
- Vi è un record di suicidi;
- Poco meno della metà della popolazione abita sola;
- Ѐ stato registrato un aumento vertiginoso degli anziani che muoiono da soli (senza le attenzioni o le cure della famiglia);
- Ѐ aumentata la richiesta alle banche del seme da parte di donne single ed eterosessuali che vogliono avere un bambino senza avere l'interesse a trovare un partner con il quale condividere l'onere della genitorialità.
Il desiderio di comunità
L’indipendenza, che di per sé è un valore positivo, ha lasciato spazio in questa sua aberrazione ad una società estremamente individualistica: una società dove si nasce, si cresce, si vive e infine si muore soli.
E si fa presto ad astrarre questa eccezione per confrontarla con la nostra realtà dove contatti veri e piacere di stare insieme sono sempre più rari, dove la maggior parte dei ragazzi (ma anche bambini e sempre più adulti) stanno più ore con gli occhi incollati ad uno schermo che con gli amici, con i genitori o con il loro partner messi assieme. Per vivere abbiamo bisogno di uno scambio sociale e tutti abbiamo intrinseco in noi un desiderio di comunità.
Ma non è per tutti: la relazione con gli altri non è solo un piacevole passatempo ma è motivo di vita!
Ma allo stesso tempo instaurare rapporti significativi è un processo lungo, scomodo, che richiede abnegazione e capacità di giungere a compromessi accettabili ma non sempre desiderati.
Non è una passeggiata, ma se vogliamo credere a Zygmunt bauman forse dovremmo sostituire la dannosa dipendenza dai nostri affetti con una piacevole e calorosa interdipendenza; che non è una vita senza problemi, è una vita dove i problemi esistono, vengono affrontati di petto e vengono superati per o con gli altri. Questa per il famoso sociologo polacco è la ricetta, anzi la definizione della felicità.