Siamo tutti spiati. Catalogati. Studiati. Eppure, Edward Snowden ce l’aveva detto. A lettere chiare, cubitali. Ricordate Snowden? Nel 2013 questo ragazzo di trent’anni che lavorava come super consulente informatico per la NSA (Agenzia per la Sicurezza Nazionale Statunitense), mise a grave rischio l’incolumità per uno scrupolo di coscienza. Di fatto, non avrebbe più potuto vivere placidamente dopo essere venuto a conoscenza che il Governo degli Stati Uniti violava costantemente e impunemente “la privacy e i diritti basilari della gente tramite un immenso meccanismo di sorveglianza costruito in segreto”.
Una volta trasferitosi furtivamente ad Hong Kong, rivelò al mondo l’esistenza di una messe di documenti top secret che provavano al di là di ogni ragionevole dubbio (e delle smentite di circostanza) l’esistenza di metodologie di sorveglianza globale in grado di raccogliere informazioni su chiunque, incrociando i dati raccolti dai principali service provider mondiali: Google, Facebook, Microsoft, Yahoo, Apple e Skype. Tecnologie di spionaggio applicate non solo ad anonimi e ignari utilizzatori della rete, ma anche a capi di stato e organi di governo. La motivazione? Il controllo. Flussi monetari, economia, opinioni, coscienze: tutto è manipolabile e indirizzabile con il grimaldello giusto.
Informazioni rubate? No, solo vendute
Ma veniamo ai giorni nostri. La Cambridge Analytica è solo una delle centinaia di società a fare data mining su larga scala: raccolta di dati, estrapolazione, psicografia. In breve, tracciatura del profilo psicologico del singolo utente attraverso l’analisi delle informazioni fornite dalla sua attività in rete. Chi siamo, che gusti abbiamo, cosa ci piace e cosa no: tutto è riesumabile quando il giusto algoritmo passa al setaccio i nostri click, tutto è vendibile al miglior offerente. Chiaramente, non solo per raffinare il target delle proposte commerciali. Cosa pensare se ci dicessero che esistono modelli in grado di anticipare le risposte dell’individuo attraverso la decodificazione dei gusti e addirittura delle emozioni?
Avete presente quegli stati emotivi su Facebook? Adesso proviamo ad immaginare un piccolo applicativo come tanti (Thisisyourdigitallife) che promette un esame della personalità compiuto da un fantomatico team di psicologi: la registrazione avviene col social login, cioè inserendo le credenziali di accesso al profilo, come tutti i software di questo tipo. Così facendo il programma mette mano alle attività di 270 mila utenti, più i loro contatti. In totale circa una cinquantina di milioni di persone secondo le stime del New York Times e del Guardian, le testate giornalistiche che hanno fatto esplodere lo scandalo. Nulla di strano, questo è il business di Facebook: rivendere i dati degli iscritti ai propri inserzionisti.
Mercanteggiando dei fatti nostri la creatura di Zuckerberg è divenuta un colosso della finanza mondiale. Ma il fatto è un altro. È la gente a mettere a disposizione la propria vita, autorizzandone il trattamento digitale. Nessuno punta un fucile. E nessuno legge mai gli ineffabili accordi di licenza.
Chi ha i dati ha il potere
Christopher Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica, ha spifferato al mondo come la sua azienda sia venuta in possesso di queste informazioni: direttamente dalla fonte, cioè dal programmatore, il quale così facendo vendeva a una società terza i dati messi a disposizione dalla piattaforma contravvenendone ai termini di utilizzo. Malgrado l’autodenuncia della stessa Cambridge Analytica, la cosa è rimasta sottotraccia per due anni.
Perché parlarne solo ora? Dove sta il movente? Certo, di mezzo c’è un’indagine giornalistica durata mesi e uno di quegli scoop che ti cambiano la vita per sempre. Ma l’altro aspetto è che nell’information technology era chi detiene le informazioni ha il potere. Per questo motivo Steve Bannon, eminenza grigia della campagna elettorale di Trump, ha spinto il team presidenziale ad usufruire dei servigi di Cambridge Analytica, tradotti secondo le indagini in una serrata attività pro repubblicani organizzata su larga scala, con account fasulli gestiti in maniera centralizzata per spammare, diffondere notizie fake contro Hillary Clinton, condizionare l’opinione pubblica in tempo reale durante i dibattiti televisivi.
E a proposito di condizionamenti, pare che la stessa tecnica sia stata usata anche durante la campagna referendaria per Brexit, a favore dell’uscita del Regno Unito dalla Comunità Europea.
La grande manipolazione
Quali conclusioni trarre da questa vicenda? Lapalissiane. Che ci piaccia o meno viviamo nell’economia del dato, in un mondo dove tutto il marketing è basato sui dati, immersi in un intero ecosistema di società che vendono dati. Non certo da oggi. Eppure, la stragrande maggioranza degli utilizzatori della rete pubblica informazioni, immagini e opinioni senza possedere la minima consapevolezza che questo agglomerato di tracce finirà archiviato in giganteschi data center per essere ripescato e utilizzato all’occorrenza da società specializzate, che ingrassano pilotando i flussi d’informazione secondo precise strategie di marketing.
Il più gigantesco, legale e autorizzato condizionamento che la storia dell’umanità ricordi. Questo è il prezzo da pagare alla moderna e gratuita condivisione, esigenza peraltro quanto mai antica e connaturata all’essere umano, sulla quale i social proliferano. Snowden aveva detto anche peggio, ricordate? Ah, a proposito, ora vive in Russia, costretto all’esilio.