Standing ovation al Cinema Massimo di Torino ieri sera come sabato scorso alla Quinzanne de cinema di Cannes per “La pazza gioia” di Paolo Virzì. Intanto nei box office, il film è secondo soltanto a “Captain America". Era la prima volta che Virzì andava sulla Croisette e oggi ha chiesto che cosa si diceva a Torino, dove manca da 3 anni. Accanto a lui, Micaela Ramazzotti anche lei torinese per 3 anni.

Con Valeria Bruni Tedeschi forma una coppia vincente. Su di loro è stata cucita la sceneggiatura in collaborazione con Francesca Archibugi, regista de Il nome del figlio, che Virzì conosce dai tempi di “Mignon è partita”. Ha spiegato Virzì: "È un film sui confini incerti tra gioia e dolore, dramma e commedia, pazzia e normalità". Il regista ha anche ammesso di essere stato un po' autolesionista a non aver ancora girato un film a Torino: "Qui c'è la Film Commission più ganza d'Italia".

La location è una comunità terapeutica sulle colline pistoiesi, dove si suona la chitarra e si cura il giardino per farsela passare.

Si interrompe la serena giornata soltanto per fare terapia. Anche i medici sono dolci e, pur discutendo spesso sui farmaci da somministrare, contribuiscono al clima rilassato. Soprattutto confidano nell'impensato rapporto che viene a instaurarsi tra le due malate. Si passa dalla più torva brutalità alla più schietta amicizia.

E questo si rivela il farmaco migliore, anche perché l'una confessa all'altra il proprio tremendo segreto, con un vero e proprio transfert. Il regista rivendica per due donne "pazze" il diritto alla gioia e racconta di aver contattato psichiatri e psicologi, di vaste letture di libri e consultazioni di blog, di visita in ospedali e case di cura. Vi ha trovato i catatonici, gli eccitati, i melanconici, gli impiccioni, i sospettosi, i logorroici.

Forse, aggiunge, come nella vita di tutti i giorni.

Dal transfert al crying at happy end

Racconta Virzì, partendo dal precedente film: “Eravamo sul set de Il Capitale Umano e Micaela era venuta in visita, il giorno del mio compleanno. Stavo girando l'ultimo ciak, prima di una pausa, di una scena tra Bentivoglio e Gifuni”. Poi ha pensato a Pirandello, lo scrittore delle nevrosi, e ad Ada Merini, o Alda (chissà), la poetessa, ritenuta pazza, ma probabilmente solo curata male da una depressione post partum.

Nel raccontare il dietro le quinte Micaela Ramazzotti sembra riferirsi ad uno psicodramma collettivo: le ragazze della comunità hanno raccontato liberatoriamente le loro storie, le loro vite piene di peripezie, la voglia di guarire, di non impasticcarsi più. Ma il film vuole essere la versione divertente e umana della malattia e anche i lati giudiziari, costrittivi ed invasivi sono molto sfumati.

Prevale il rapporto di affetto tra due donne tanto diverse che fuggono insieme dalla comunità, ma non trovano un vita tanto migliore. Entrambe classificate come socialmente pericolose si rivelano espansive e generose, anche nei momenti difficili. Li affrontano meglio che le persone normali. Secondo Paolo Virzì tutti i film sono una terapia, aiutano a sopportare meglio le cose della vita.

Specie se come "La Pazza gioia" vanno a scovare la commedia proprio nel cuore del dramma e della tragedia. Un film bipolare nel senso positivo del termine che altrimenti per i medici significa patologica instabilità di umore, con la Tedeschi che rappresenta l'euforia e la Ramazzotti la più buia depressione. Il finale in inglese è un crying at happy end, in italiano una catarsi. E stasera per Cinema e psicoanalisi  al Massimo danno "Confidenze troppo intime" di Patrice Lecomte.