Sempre più spesso in Europa si indicono referendum: sulle politiche di austerità, sull'adesione all'Unione Europea, sulle quote di ripartizione dei migranti. Lasciare la parola al popolo su questioni così delicate e importanti per la vita pubblica di un Paese, è uno stratagemma degno di Ponzio Pilato: ricorrere al referendum sta diventando un mezzo per accumulare consenso scrollandosi di dosso le proprie responsabilità di eletti.

Il referendum promosso da Viktor Orbán è solo l’ultimo in ordine di tempo. In Ungheria, dove da oltre un anno la tensione per l'accoglienza dei migranti è altissima e si costruiscono muri per impedire loro l'accesso -in barba ad un'Europa nata dalla distruzione delle barriere e fondata sui confini aperti- il referendum chiedeva la bocciatura delle politiche comunitarie in materia di accoglienza.

Come se soltanto l'Ungheria si trovasse ad affrontare una crisi umanitaria senza precedenti, venendo meno al principio di solidarietà che rende l'Unione Europea non solo il più grande mercato economico mondiale, ma un'entità politica unica che accomuna i cittadini europei nei valori, nei diritti e nei doveri.

L'Ungheria ha tentato di legittimare il suo dietrofront agli accordi comunitari, in un momento in cui gli altri Paesi, con sacrificio, accolgono migliaia di profughi, facendo fronte all'immenso numero di vite umane finite sul fondo dei nostri mari, in supporto all'Italia, ormai praticamente sola nei salvataggi nel Mediterraneo.

Il referendum è fallito miseramente, lontano alla soglia del 50%, necessaria per il quorum, ma Orbán ha comunque strumentalizzato il risultato dando risalto al 98% dei votanti che si era espresso a favore della sua posizione, ribadendo comunque la sua ostilità contro Bruxelles. Proprio questo ultimo dato dovrebbe far comprendere che gran parte degli elettori dell’opposizione ha boicottato il referendum.

Non c'è bisogno, però di essere fini analisti politici per rendersi conto dell'entità del fallimento di questo referendum:la campagna referendaria -non priva di allarmanti tratti xenofobi- batteva soprattutto sul fatto che la bocciatura non si sarebbe fermata solo alla politica europea in materia di immigrazione, ma che questa linea di opposizione sarebbe stata applicata anche per altre questioni.

Orbán incassa un duro colpo, capovolgendo la prospettiva di un anno fa: il primo ministro ungherese, infatti, si era guadagnato ammiratori in tutta Europa, complice anche la cattiva gestione comunitaria della crisi umanitaria. Se, però, questo risultato farà felice chi osteggiava la diffusione di queste idee, concretamente esistono ancora oltre 60mila profughi bloccati in Grecia in attesa dell’applicazione del piano di ricollocamento.

Un'altra scelta poco saggia di appellarsi allo strumento referendario è stata fatta solo pochi mesi fa da David Cameron, che, quasi in tono di sfida verso la componente euroscettica (che ha gettato le sue fondamenta proprio in Gran Bretagna), si è ritrovato davanti al risultato della futura Brexit. Un esito, poi, non del tutto inaspettato visto che i britannici hanno vissuto la vita comunitaria nel totale isolazionismo, contrapponendosi quasi sempre ad ogni politica comune (non dimentichiamoci il ruolo dell'Iron Lady nelle questioni di integrazione politica ed economica europea).

Si potrebbe parlare di Alexis Tsipras  che dopo poche ore di gloria e l'intento di affrontare a muso duro la Troika, si è trovato a dover accettare ed attuare tutte le misure che aveva bocciato il popolo ellenico, oppure dei referendum sulla Costituzione Europea in Francia ed in Olanda, ma sarebbe superfluo; anche in queste situazioni sono serviti solo a palesare i dissensi nei confronti del governo nazionale di turno.

Non sarà assurdo constatare, allora, che i referendum stiano perdendo di importanza, sviliti nella loro funzione principale: la partecipazione diretta da parte dei cittadini, strumentalizzati dal governo di turno per districarsi da decisioni impopolari.