Philip Roth ci ha lasciati a 85 anni, porgendoci l’ultimo saluto dal suo letto di Manhattan. E forse anche lui, in quegli ultimi oscuri momenti, si è chiesto la stessa cosa che continuano a chiedersi tutti: “Cosa avrei dovuto fare di più?”. Forse. Perché poi, alla fine, si sa. È quello che accompagna la vita di ogni scrittore, che in fondo in fondo, se autentico, non si sente mai pienamente realizzato, sempre estraneo ai suoi scritti, sempre incapace di valutarli e, quindi, valutarsi: la necessità di essere riconosciuto.

E se questo riconoscimento deve passare (per l’opinione pubblica, per vendere di più, per gli editori, ma non per te) dalla nomina da parte di un gruppetto di intellettualoidi, che giudicano a proprio gusto, universalizzando solo successivamente la sentenza, allora forse pensi che puoi esistere solo in e per quel premio: il Nobel.

Ossessione

Nobel. Nobel. Nobel. Diventa quasi un’ossessione, quando cominciano a dirtelo. Quando cominciano a dirti che dovresti averlo tu, che te lo meriti, perché sei, probabilmente, il più grande scrittore del XXI secolo. Quando ogni anno rientri nella lista dei potenziali vincitori.

Quando ogni anno dicono che avresti dovuto vincerlo tu, non quell’altro sconosciuto.

Sì, va bene, ma pur sempre uno sconosciuto che, almeno lui, ha avuto la possibilità di riconoscersi nell’approvazione di quel gruppetto di Stoccolma. L’ha vinto anche Dylan, ti dicono. E tu perché no? Perché nessuno vuole darti quella medaglia al merito?

Destino

Il destino, quindi, ha pensato bene di metterci lo zampino. Non lo avrai mai il Nobel. Forse qualcuno penserà di renderti omaggio nei prossimi anni, con l’ipocrisia solita di chi non ama la bellezza. E quindi, in barba a tutti gli accademici economisti dell’arte, è lo stesso premio che ha deciso di ritirarsi, di scioperare nell’anno della tua morte. Tu ci lasci, te ne vai dove vuoi, e il Nobel non verrà assegnato.

E vogliamo pensare che si tratti di destino. Perché in verità a te non è mai fregato nulla di riempire la bacheca. La letteratura va oltre l’accademia, oltre i riconoscimenti. Sei tu che ce l’hai insegnato, che vincere non è l’unica cosa che conta. Che il successo non è sinonimo del valore.

Un’opera che parla di uomini e donne, di genere umano. Che trova la sua verità e il suo valore solo in questo. Tu lo sapevi bene: “Il basket è un’altra cosa”, diceva lo svedese. ”La letteratura è un’altra cosa”, sarebbe stata la tua risposta. Quindi smettiamo di chiedercelo; non avresti dovuto fare niente di più.