Fra i simboli degli anni Novanta sicuramente non può mancare Kurt Donald Cobain, storica voce dei Nirvana. Sono passati ormai 25 anni dalla sua tragica scomparsa, e ancora oggi il suo nome viene ricordato come il simbolo di un'intera generazione, tanto fragile quanto ribelle.
Simbolo di una generazione
Quello che ricorderemo, oltre alle canzoni scritte da Kurt per i Nirvana, è anche il suo stile.
Tra gli ultimi ad entrare nel funesto Club dei 27, insieme ad altri grandi artisti come Jimi Hendrix, Jim Morrison e Janis Joplin, Kurt è stata l'anima cupa e disperata di una rivoluzione musicale che ha segnato i nostri anni Novanta.
Con il Seattle Sound, la musica dei Nirvana, il Grunge, ha rivoluzionato i parametri del rock: la figura di Kurt Cobain, insieme a quella di Andrew Wood, leader dei Mother Love Bone, Chris Cornell dei Soundgarden, Layne Staley degli Alice in Chains, Scott Weiland, sono stati cantanti simbolo di quel periodo: le loro esistenze, accomunate da eccessi ma anche da enormi inquietudini, sono state interrotte troppo presto.
Forse quel successo era il problema che nessuno di loro riusciva a sopportare: i Nirvana il trionfo lo hanno vissuto dopo la pubblicazione dell'album Nevermind nel 1991. Forse è stato il dover convivere con se stessi come leader e figura di riferimento per molti giovani a creare un senso di disagio e di inquietudine in Kurt. Eppure Kurt ha cercato sempre di andare avanti, aiutato dai suoi compagni di band, sempre in difficoltà per i suoi problemi di dipendenza dall'eroina: ma alla fine nel 1994, non ha sopportato più quel peso, e ha scelto di farla finita, dopo un tentativo mal riuscito nel marzo dello stesso anno, quando era in vacanza a Roma insieme alla moglie Courtney Love e alla figlia.
Il suo compagno e amico di lunga data Dave Grohl forse è riuscito a trasformare quel senso di rabbia cupa e inquietudine in qualcosa di positivo per lui e per gli altri, con il suo progetto, i Foo Fighters, che ha in pochi anni conquistato un nuovo pubblico di appassionati.
L'ultima lettera
Non è facile scavare dentro il personaggio di Kurt, il quale forse non è mai stato raccontato per intero. Ci ha provato l'ex manager Danny Goldberg con la biografia Serving the Servant: Remembering Kurt Cobain pubblicata in questi giorni, ma probabilmente potrebbe mancare ancora qualcosa difficile da tradurre in parole.
Rileggere l'ultima lettera lasciata da Kurt significa rivivere le ultime emozioni di un cantante troppo fragile: dentro vi si può leggere l'assenza di emozioni nell'ascoltare musica e anche nel crearla, l'assenza di vitalità e di entusiasmo che si può provare nei concerti, lo stesso che, a detta di Kurt, provava Freddie Mercury prima di esibirsi davanti alla folla.
Kurt è consapevole di non poter più mentire e non può far fingere che tutto vada per il verso giusto. "Il fatto è che non vi posso imbrogliare, nessuno di voi." scrive nella sua lettera. La vita da rockstar evidentemente iniziava a pesare come un macigno: "Ogni volta che salgo sul palco mi sento come se dovessi timbrare il cartellino". Una tristezza incolmabile riempiva l'animo di Kurt, un peso che gli impediva di andare avanti e vivere con serenità tutto quello che faceva. E la speranza che sua figlia Frances possa non essere autodistruttiva e miserabile come lui. Un ringraziamento finale a tutti i supporter da una persona che si sente ancora un bambino lunatico. E alla fine la citazione di un brano di Neil Young: "it's better to burn out than to fade away" (meglio incendiarsi in fretta che spegnersi lentamente).