L'ospite più atteso, più bramato, quello veramente d'onore della XIX° edizione del Napoli Film Festival è stato Edoardo De Angelis che ha permesso la proiezione e la discussione su uno dei suoi film più belli: Indivisibili, vincitore, a giusto titolo, di sei David di Donatello.

Arrivato al suo terzo lungometraggio dopo Mozzarella stories e Perez, il titolo si riferisce alle sorelle gemelle diciottenni Daisy e Viola.

Esse, fin dalla nascita, sono unite da un lembo di pelle, all'altezza del bacino, che le rende indivise. Per questa anomalia genetica e grazie alla loro splendida voce vengono sfruttate da un padre autoritario e senza scrupoli (una sorta di Crono o Dio dell'Antico Testamento) come fenomeno da baraccone nelle feste e cerimonie religiose tenute tra CastelVolturno e Baia Domizia. Un litorale desertico di desolazione umana e post-apocalittica che rievoca alcuni scenari di Ungaretti, Antonioni e Ferreri. Luogo di degrado, di storie sordide dovute alla crudeltà e al più abietto egoismo, di sopraffazione, di vite fatte di espedienti, di mercificazione di ogni valore e sentimento, di esistenze trinciate e senza futuro affini agli emarginati narrati e filmati dal poeta Pier Paolo Pasolini.

Le indivise e sofferenti Daisy e Viola si muovono in un contesto malsano evidenziato dal realismo volgare e grottesco che accomuna Fellini a Ferreri. Le ragazze sono capri espiatori in quanto uniche entità ancora umane in un mondo ormai irrecuperabilmente contaminato, tanto che anche il Cristo riverso sulla spiaggia ha rinunciato a redimere; Madonne dolenti che portano sul corpo il peso rivoluzionario del messaggio evangelico rifiutato (o forse nemmeno mai ascoltato) da questa gente, ridicole e sublimi nelle vesti di Marie savoldiane. A questo inquinamento antropologico oppongono il loro canto lirico e straziante che incanta per brevi minuti gli spettatori, come se vivessero un bel sogno prima di risvegliarsi nella bieca realtà.

Il loro canto e la loro camminata sbilenca le fa sorgere come ginestre leopardiane sull'aridità umana. Il loro è un grido soffocato e potentissimo quanto più è lieve e tenero verso un ritorno all'essenza umana, verso una solidarietà fraterna e schietta che si basa anche nel riconoscere che l'uomo è fragile; una fragilità di stampo bergmaniano.

Tutta questa indicibile sofferenza, questa nascosta tenerezza, questa prorompente voglia di riscatto è cucito sul corpo della loro madre, impersonato da Antonia Truppo, dotata di una bellezza fiera e deturpata, moderna Magnani alla Mamma Roma. Film imperniato sulla sacralità umana fino all'ultima sequenza, quando il taglio chirurgico di un medico-angelo di palese matrice kurosawiana rende le due gemelle finalmente indivisibili.