Mercoledì 21 settembre il Governo metterà nero su bianco gli interventi previdenziali da inserire nella Legge di Bilancio 2017, a partire dall’APE. Domani tutto sarà più chiaro perché sembra che saranno annunciate anche le cifre dei vari provvedimenti. Questa mini riforma delle Pensioni, con provvedimenti sulla flessibilità, sulle minime e probabilmente sulle ricongiunzioni, oltre che venire accompagnata dallo scetticismo di una grande fetta di popolazione, sembra piena di stranezze ed errori.
L’APE vuol dire flessibilità?
La novità più importante sarà l’APE o anticipo pensionistico, soluzione low cost inventata dal Governo e spesa nell’ottica della flessibilità pensionistica. Intervento a basso costo per le casse statali perché i soldi per mandare in pensione anticipata i lavoratori saranno anticipati dalle banche, ma saranno gli stessi lavoratori a restituirli non appena raggiungeranno i requisiti per la pensione con le norme Fornero. Misura che ha come obiettivo la flessibilità in uscita perché consente di lasciare il lavoro a partire dai 63 anni di età con 20 di contributi, invece che attendere i 66 anni e 7 mesi fissati dalla Fornero.
Molti sono i dubbi che accompagnano la novità, in primo luogo per quanto riguarda gli oneri caricati sui pensionati, cioè le spese assicurative e gli interessi bancari del prestito. La rata che i pensionati non tutelati si vedranno trattenere dalla propria pensione conterrà anche questi oneri, ma non si capisce ancora di che entità. Dubbi anche sulla lunghezza delle trattenute, cioè sui 20 anni di “ammortamento” del prestito, che a detta di molti sono troppi. Pagare il debito per 20 anni, a partire dai 66 anni e 7 mesi, rappresenta una trattenuta a vita, fino ad 87 anni che poi è la vita media della popolazione.
Conta l’età, non i contributi
Un problema che l’APE non risolve è la flessibilità per i lavoratori che hanno più di 20 anni di versamenti contributivi, molti di più.
Per l’APE sono necessari 20 anni di contributi, ma una vasta fetta di lavoratori si trova lontano dai 63 anni e con contributi molto maggiori, vicini ai 40 anni. Per questi soggetti, che poi sono i cosiddetti precoci, sembra una ingiustizia non permettergli di andare i pensione, nonostante l’ingente montante di versamenti e nonostante abbiano iniziato a lavorare molto giovani. Di quella Quota 41 che tanto viene pubblicizzata da gruppi e comitati, sponsorizzata anche dal Presidente della Commissione Damiano, si sono perse le tracce, chiusa come è dagli alti costi che comporterebbe per le casse statali. Nemmeno la soluzione quota 100, quella forse più giusta e che a dire il vero trova anche abbastanza consenso nei lavoratori, sembra essere fattibile.
SI tratterebbe di mandare in pensione i lavoratori nel momento in cui la somma tra età anagrafica e contributi versati raggiunga 100.
Dubbi anche su minime e ricongiunzioni
L’intervento sulle pensioni in essere che il Governo considera basse sarà fatto estendendo la quattordicesima anche a pensioni prossime ai 1.000 euro al mese. Alcuni scettici, come il Presidente INPS Boeri, considerano questa soluzione un errore dell’errore. La contestazione nasce in primo luogo dal meccanismo di concessione della mensilità aggiuntiva. Oggi infatti questa viene erogata in base ai redditi personali del pensionato, senza tenere conto della reale “ricchezza” dei soggetti e delle famiglie. Una quattordicesima che viene erogata a chi ha una pensione di 1.000 euro e che magari ha altri trattamenti pensionistici o diverse proprietà immobiliari non sembra equa, perché viene negata a chi davvero ha solo la pensione che supera di poco € 1.000.
Anche le ricongiunzioni gratuite sono accompagnate da dubbi, perché dovrebbero essere le varie casse previdenziali in cui si sono versati i contributi a pagare una quota della pensione totale del lavoratore. Non si sa bene con che criteri e come faranno, casse che magari oggi non esistono più a partecipare a questa specie di pensione “collage”.