La Corte Costituzionale, il 14 dicembre scorso, ha annunciato che l’11 gennaio si pronuncerà sull’ammissibilità dei tre quesiti referendari presentati dalla CGIL dopo aver raccolto per ognuno di essi più di un milione di firme. Il primo dei tre quesiti referendari prevede l’abrogazione delle riforma sullo Jobs Act. Il secondo quesito, invece, riguarda l’abrogazione degli ormai celeberrimi voucher con i quali viene retribuito il c.d.

lavoro accessorio.

Infine, il terzo quesito prevede la reintroduzione delle garanzie per i contributi previdenziali dei lavoratori delle ditte che subappaltano i lavori. Questo referendum, a differenza di quello dello scorso 4 dicembre, è un referendum abrogativo per il quale è previsto il c.d. quorum del 50%+1, ai sensi dell'art. 75 cost.

I motivi alla base dei tre quesiti

Con il primo quesito referendario il sindacato con più iscritti d’Italia propone l’abrogazione di alcuni dei capisaldi della legge sul Jobs Act. L’obiettivo è quello di ridimensionare il raggio di azione di questa riforma del lavoro subordinato che, non è certamente un mistero, non ha mai ottenuto il benestare da parte della CGIL.

In particolare, si punta alla cancellazione del contratto di lavoro “a tutele crescenti”, ossia che i lavoratori licenziati senza giusta causa non hanno più diritto al reintegro ma soltanto ad un indennizzo economico variabile a seconda dell’anzianità di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità. In altre parole, in caso di vittoria del SI, tornerebbe in capo ai datori di lavoro l’obbligo di reintegro del lavoratore nel posto di lavoro per le aziende con meno di 15 dipendenti, se il licenziamento disciplinare dovesse essere giudicato illegittimo dal Giudice del lavoro. Per le aziende sotto i 5 dipendenti, invece, il reintegro non opererebbe in automatico ma sarebbe lasciato al libero apprezzamento del giudice.

Il secondo quesito, quello dei Voucher, ossia dei buoni lavoro da 10 euro l’ora che, nati per contrastare il lavoro nero, al contrario, l’hanno fatto crescere in modo esponenziale. Infatti, tali buoni sono stati utilizzati in modo indiscriminato in luogo dei contratti veri e propri per sottopagare i dipendenti. In caso di vittoria del SI, i voucher tornerebbero ad essere utilizzabili esclusivamente per le “prestazioni occasionali e accessorie” (lavoretti domestici, di giardinaggio e di consegna porta a porta). In tal modo, verrebbe abrogata la normativa che nel corso degli anni li ha resi utilizzabili in modo indiscriminato in tutti i settori.

Il terzo quesito, invece, punta all’abrogazione dell’art. 29 della c.d. Legge Biagi, per far sì che appaltatori ed appaltanti abbiano la medesima responsabilità nei confronti di tutto ciò che concerne i rapporti di lavoro.

Quindi, una norma che obblighi i committenti ed i subappaltatori di controllare che le aziende con cui lavorano abbiano regolarmente versato i contributi prima di effettuare i pagamenti.

La possibile data del Referendum

Per quanto attiene all’ eventuale data del Referendum, nei giorni scorsi, il Ministro del Welfare, Giuliano Poletti, ha fatto chiaramente intendere che le intenzioni dell’attuale esecutivo siano quelle di andare al voto per le Politiche prima di giugno, in modo tale che il referendum sul Jobs Act venga rinviato di un anno. Ciò accadrebbe, in quanto la Legge 352/1970, all’art. 34 comma 2 e 3, dispone che in caso di scioglimento anticipato delle camere da parte del Presidente della Repubblica, il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso all’atto della pubblicazione del D.P.R.

sulla gazzetta ufficiale e che i termini del procedimento del referendum riprendano a decorrere a partire dal 365esimo giorno successivo alla data delle elezioni. Una soluzione questa, che se da un lato sarebbe in grado di congelare gli esiti del referendum per un anno, dall’altro metterebbe in sintonia i gruppi politici che sono favorevoli ad andare immediatamente alle urne per eleggere il nuovo Parlamento italiano.