Il 29 maggio del 1966, nel sobborgo di Santa Ursula, in Messico, è stato costruito lo stadio ufficiale del Club America e della nazionale messicana. Da allora, sotto gli occhi dei suoi murales che raffigurano guerrieri aztechi e moderni atleti come se appartenessero alla stessa epoca, ha ospitato eventi di rilevanza mondiale e personalità delle più varie, dal Papa a Michael Jackson.
Un luogo di culto, come tutti gli stadi in cui si giocano le finali dei mondiali di calcio, come quella dell’86, in cui l’Argentina sconfisse l’Inghilterra grazie alla “mano di Dio”, quel gol di Maradona di cui si parla ancora oggi. O ancora prima, quella del 1970, in cui il Brasile di Pelé vinse per 4-1 contro l’Italia.
Allora non si immaginavano gli scandali che un giorno avrebbero coinvolto i vertici della FIFA. Erano tempi in cui si riusciva a sognare per un gol fatto da solo, in una corsa dal centro campo alla porta avversaria, senza mai cambiare traiettoria o passare la palla.
El Estadio Azteca ha una capienza di 100,000 spettatori, è stato progettato dagli architetti Pedro Ramirez Vazquez e Rafael Mijares Alcerreca.
Si impiegarono sei anni per costruirlo. E ancora oggi ciò che colpisce di più sono quelle raffigurazioni di guerrieri e giocatori di calcio lungo le mura di cinta.
Gli aztechi e l’arte della conquista
A partire dal XIII Secolo, tra le popolazioni cosiddette precolombiane, emerse quella azteca, una stirpe di combattenti che avrebbe vinto qualsiasi battaglia se l’avesse disputata su un campo di calcio. Nell’arco di un secolo, gli aztechi conquistarono le popolazioni limitrofe e ne offrirono i cuori e le teste ai loro dei. Tra questi, a guidarli in una partita immaginaria contro il Boca Junior o il Real Madrid, ci sarebbe stato senz’altro Ehecatl Quetzalcoatl, protettore dei poeti e dei guerrieri in battaglia.
A lui, gli aztechi avrebbero dedicato i loro gol, anche quelli di mano! E in tutta la Valle del Messico si sarebbe sentito il coro dei tifosi, popoli sottomessi che speravano che non toccasse a loro.