La guerra al califfato nero non si combatte solo davanti alle telecamere di tutti il mondo. Esiste una profonda resistenza interna nei territori su cui Isis ha posato lo sguardo, una guerriglia di opposizione al jihad che si combatte ogni giorno dentro insospettabili trincee. Il nuovo leitmotiv della lotta al terrorismo, a livello endemico, sembra essere quello della sempre più fiorente schiera di donne che scendono in campo a combattere contro i miliziani di Daesh.
La guerra è anche una questione loro. Proprio una donna ha attirato l'attenzione dei soldati del terrore in seguito a certe sue condotte belliche.
"Taglio le loro teste e le cucino"
Mai, prima d'ora, una donna aveva osato tanto contro il jihad. Wahida Mohamed, alias Um Hanadi, 39 anni, è una giovane iraqena, casalinga per sua definizione, che ha una particolare destrezza nella guerriglia armata e usa machete e pistole come fossero utensili da cucina. Guida un gruppo armato composto da 70 uomini, impegnati nella lotta contro le bandiere nere nella zona di Shirqat, a 80 km da Mosul. Lei non è una 'desperate housewife' qualunque.
Lei si guadagna un futuro uccidendo jihadisti per conto delle forze governative e lo fa in un modo assolutamente rude e violento: se non gli spara con un AK-47, li decapita e ne cucina le teste. Assoldata per un solo compito: uccidere a vista. Così combatte il sedicente Stato islamico e i suoi miliziani dal 2004, al soldo del governo iracheno e della coalizione. Con una sincerità disarmante ha ammesso di essere tra gli obbiettivi principali dei terroristi, da quando ha attratto l'attenzione del califfo Al-Baghdadi.
Continui attentati contro lei e la famiglia
Dal 2004 a oggi Wahida ha subito numerosi attentati a colpi d'arma da fuoco e autobombe. Scampata a tutti i tentativi di sopprimerla, la donna ha perso due mariti, padre e tre fratelli, caduti nella sua personale lotta al terrorismo islamista ad opera delle stesse mani assassine che la vogliono morta.
In una dichiarazione alla Cnn la casalinga ha ammesso "hanno provato ad ammazzarmi sei volte, ho proiettili in testa, nelle gambe, ho le ossa rotte". Un velo le nasconde le cicatrici e le ferite dell'anima. Continuerà a combattere.
Nel silenzio delle case distrutte dai bombardamenti si vive il quotidiano con la speranza di cacciare quella parte deformata di Islam che colpisce anche i suoi fratelli. Funziona così anche a Mosul, città di notevole importanza strategica anche per la vicina presenza dell'omonima diga che controlla gran parte delle risorse idriche dell'Iraq.
Proprio ai danni della diga si registrano continue minacce di distruzione da parte dei jihadisti. Perché? La risposta è tanto semplice quanto spaventosa: distruggere una simile opera di contenimento delle acque, lunga 3,2 km e alta 131 metri, provocherebbe una catastrofe di proporzioni bibliche in termini di morti e perdite economiche.
Un simile disastro metterebbe in ginocchio il Paese. La grossa portata della diga, in caso di cedimento o distruzione dolosa, creerebbe un'onda che, estendendosi su tutta la valle del Tigri sino a toccare la capitale Baghdad, a ben 350 km di distanza, seminerebbe morte e devastazione in una porzione enorme di territorio. Il controllo su questa diga, ritenuta tra le più pericolose al mondo, equivale a un controllo vitale sul Paese (le risorse idriche) e mortale al tempo stesso (la diga potrebbe trasformarsi in una vera e propria arma di distruzione di massa). Nel 2016 è stato siglato un accordo tra il governo iracheno e il gruppo italiano Trevi per la manutenzione del sito.