Domenica siciliana assolata, di caldo afoso, girando per canali in tv, quasi annoiato del nulla che vi si trova, ecco che, all'improvviso, incontro il film su Paolo Borsellino e, per quanto sia stato mandato in onda con un giorno di ritardo, rispetto alla data dell'attentato in cui lui la sua scorta persero la vita in via D'Amelio, la cosa un po' rincuora, anche se in ritardo, qualcuno ricorda gli eroi.
In questo film rivedo la difficoltà nel cercare di lavorare che avevano, in quegli anni, Falcone e Borsellino e la parte sana delle Procure siciliane.
In quegli anni giravo per la Sicilia, lavoravo con un'impresa, costruivamo strade di penetrazione agricola, sovvenzionate dai fondi europei e "quell'aria strana" che si respirava a Palermo, Catania, e in tutte le città siciliane, in quelle zone agricole, lontane dal rutilante caos cittadino, era ancora più accentuata, con personaggi che si affacciavano in cantiere a sibilare minacciose offerte o con la nostra ricerca del "guardiano della zona", per evitare incendi e furti.
Nel cercare di portare il pane a casa, eravamo costretti a sottostare alla presenza di questo "supervisore esterno" dei lavori, socio in parte dell'impresa, eravamo costretti dalla completa assenza dello Stato da quelle zone, eravamo costretti dalla completa mancanza di legalità che c'era in Sicilia, eravamo costretti dalla nostra paura di perdere la vita.
Sì, in Sicilia, nella mia Sicilia, la mattina si usciva per andare a lavorare pensando che si dovevano affrontare e risolvere molti problemi tecnici e di logistica e, nel novero di questi problemi, c'era pure quello di incontrare qualcuno che, nonostante il suo insignificante aspetto, poteva decidere della tua vita, se soltanto qualche parola gli fosse sembrata offensiva.
Lo so, lo so che la nostra omertà era contro tutto quello che rappresentavano Falcone e Borsellino, lo so che la nostra forzata connivenza era un'offesa per la loro memoria, ma proprio questo era il punto, loro erano memoria adesso. Falcone, Borsellino e prima ancora Terranova, Chinnici, Livatino e tanti altri, avevano trovato la morte per mano della mafia, nonostante le loro scorte, massacrate insieme a loro, nonostante la loro tutelata visibilità, la mafia li aveva raggiunti e annientati. E poi Libero Grassi e Padre Puglisi, lasciati soli.
A ogni nostro nuovo fremito di ricerca e voglia di legalità, ecco che la mafia rispondeva con le pallottole e il tritolo e questo accentuava, ancor di più, la mia vergognosa e omertosa paura.
La maggior parte della mia vita l'ho vissuta in Sicilia, tranne sei anni passati a Bollate (MI) durante l'infanzia, tutto il resto della mia vita è stato in questa meravigliosa isola, lontana dalla legalità per mancanza dello Stato e lasciata in balia di chi poteva decidere l'esecuzione di due ragazzi solo perché la madre era stata scippata o, cosa mai successa prima, decidere l'eliminazione di un appartenente a un'altra cosca, durante la festa di S. Agata, Patrona di Catania, da sempre periodo in cui le armi erano riposte e non erano toccate fino al rientro della Vara con la Santuzza nella cattedrale, il 6 febbraio.
Questo è stato, per anni, il clima che in Sicilia si è respirato. Poi le stragi di Capaci e di via D'Amelio hanno dato una svolta e, nel tempo, i capi storici, quelli che hanno, sulle loro coscienze il sangue di tanti servitori della patria, sono stati arrestati e messi al 41bis, il regime di carcere duro.
Ora leggere Pannella e la Bernardini, del loro sciopero della fame, di questi due che sembrano aver dimenticato che quelli cui vorrebbero togliere il carcere duro (che duro non è, vista la passeggiata di Riina con un amico, mentre, dentro il carcere, ipotizza altre stragi) sono quelli che ordinarono di sciogliere un ragazzino nell'acido, leggere della loro "battaglia", mi fa tornare nel cuore la mia vergogna e penso che, le loro parole, fanno sì, un'altra volta, che s'inneschi il tritolo e si prema il grilletto contro quei martiri.