Attorno alla potenziale scarcerazione di Toto Riina, il capo dei capi, è nato un dibattito molto acceso, che si è alimentato di toni giustizialisti ed estremamente aggressivi. Eppure, come spesso accade, questo dibattito è andato oltre il fatto in sé, aiutato da articoli sensazionalistici e interviste strappalacrime, utili più a fare scalpore che a informare sulla vicenda.

La ricostruzione della vicenda

La vicenda è incominciata quando l'avvocato di Toto Riina ha presentato un’istanza al Tribunale di Sorveglianza di Bologna in cui ha richiesto la sospensione della pena o, se questa non fosse possibile, i domiciliari, in quanto il suo assistito è affetto da gravi problemi di salute.

Infatti Toto Riina, l'ultimo Capo di Cosa Nostra, ha ormai 86 anni (24 dei quali passati in carcere duro) e sta morendo a causa di un tumore ai reni. I giudici bolognesi hanno risposto negativamente alla richiesta dell'avvocato, in quanto preoccupati dalla pericolosità del personaggio.

Rinvio di forma, non rifiuto

La Cassazione ha però annullato questa decisione, rinviandola ai giudici bolognesi per “difetto di motivazione”: la pericolosità da sola non è una motivazione sufficiente per negare il “diritto a una morte dignitosa”. La Cassazione ha richiesto quindi ai giudici bolognesi di riscrivere la motivazione del rifiuto dei domiciliari, invitandoli ad argomentare maggiormente la sentenza. Si tratta quindi di un rinvio di forma, più che una vero e proprio rifiuto della sentenza dei giudici bolognesi.

Ma di fatto questo è bastato per far scattare la rabbia dei cittadini.

La mafia uccide, lo Stato no.

Si sa, la mafia uccide e non ha dignità nel farlo. Gli orrori di Cosa Nostra sono tanti, tantissimi, e non possono essere perdonati o dimenticati. La disperazione e preoccupazione delle vittime della mafia è comprensibile e anche il loro desiderio di rivalsa.

Chi però si è scagliato contro il rinvio della Cassazione - che è solo un rinvio, non una decisione definitiva - l'ha spesso fatto in preda all'odio, facendo dei ragionamenti che sono simili a quelli mafiosi. Quasi come se il carcere avesse come scopo la vendetta e non il sancire una giusta pena, e lo scopo delle istituzioni fosse quello di punire, e non di tutelare i cittadini.

Ma fortunatamente non viviamo nel Far West, e la legge non è basata sulla vendetta, sui ragionamenti emotivi e di pancia.

Anche il peggior criminale ha i suoi diritti

Non urlare allo scandalo, non unirsi al linciaggio mediatico, non significa mostrare solidarietà verso la mafia, ma rispettare il percorso delle giurisdizioni democratiche del nostro paese, quelle stesse leggi che dovrebbero garantire in linea teorica (ma, ahimè, non sempre è così) ai detenuti un percorso di riabilitazione e recupero e non di vendetta. Ciò significa che anche il peggior criminale, qualunque siano i suoi crimini, merita il diritto a una "morte dignitosa". Se Riina deve stare in carcere, non è per vendetta o per le atrocità commesse, ma è poiché potrebbe essere un individuo ancora pericoloso, capace di ordinare dei crimini anche a distanza di anni dal suo arresto.

Il precedente con Provenzano

Da questo punto di vista è giusto che la magistratura valuti la tutela dell'incolumità pubblica, lasciando Riina nell'ospedale carcerario. Ed è altamente probabile che il Capo dei Capi non verrà mai scarcerato, in quanto la Cassazione, nonostante i vari fraintendimenti mediatici, non ha detto di voler "liberare" il Boss, ma ha contestato una mancanza nelle motivazioni di respingimento della richiesta per i domiciliari o differimento della pena. Ci sono stati dei casi simili anche in precedenza, come quello di Provenzano, dove nonostante le precarie condizioni di salute i capi di cosche mafiose non sono stati liberati a causa della loro presunta pericolosità.

Lo Stato non è la Mafia

Bisogna però ricordare che lo Stato non è la mafia, non segue la regola dell’occhio per occhio, dente per dente, e va quindi difeso proprio perché esso non si comporta come un'organizzazione a delinquere, ma rispetta (o almeno dovrebbe) la vita di chi ha in custodia. E i diritti dei carcerati e dei detenuti dovrebbero essere difesi, a partire dal povero che può permettersi solo l’avvocato d’ufficio, fino al peggiore dei criminali. La difesa dei diritti umani dovrebbe valere non solo per i “bravi cittadini” ma anche per i "super cattivi", in quanto alla fine, al dì là delle atrocità commesse, siamo comunque persone. Mettere in condizioni i detenuti di difendere un principio come quello della "morte dignitosa" dovrebbe essere un prerequisito fondamentale di qualunque democrazia.