Era il 27 aprile del 1980, stadio milanese di San Siro. Pareggiando con la Roma, 2-2, l'Inter allenata da Eugenio Bersellini vinceva il 12° scudetto della sua storia al termine di una stagione letteralmente dominata. Una squadra giovane, con uno 'zoccolo duro' che aveva fatto tutta la trafila dalle giovanili, una gruppo di 'rocce' come Mozzini, Bini, Oriali e Marini, trascinato in attacco dai gol di Altobelli, dai guizzi di Muraro e dal talento cristallino di Beccalossi.
A quarant'anni esatti da quel 27 aprile, Evaristo Beccalossi ci ha concesso un'intervista per ricordare quell'impresa.
In testa dalla prima all'ultima giornata
Venivate da una stagione positiva in cui vi eravate procurati la fama di squadra bella e sprecona. Nella stagione dello scudetto imparaste dunque dai vostri errori?
La squadra era stata completata già l'anno prima dove, secondo me, avevamo già dimostrato di essere competitivi. Eravamo giovani, ma si capiva che stava nascendo una squadra forte. L'anno dopo abbiamo fatto tesoro degli errori dovuti all'inesperienza della stagione precedente, siamo partiti in testa sin dalla prima giornata e siamo arrivati in testa alla fine.
Senza calcoli di nessun genere, andavamo in campo e davamo il massimo, eravamo davvero un gruppo eccezionale. Ricordo che ci trovammo già in fuga dalla prima giornata, dopo che avevano pareggiato tutte e noi battendo il Pescara ci trovammo primi da soli con due punti. Volevo sottolineare che siamo stati l'ultima squadra a vincere il campionato con una rosa composta esclusivamente da calciatori italiani.
Erano anni in cui si puntava molto sui settori giovanili e quella squadra aveva uno 'zoccolo duro' che viveva la maglia come una seconda pelle. Crede sia stato questo il vero punto di forza in quella stagione?
Forse sì, ma in realtà credo sia stato il nostro atteggiamento a fare la differenza.
C'è da dire che io, Altobelli o Caso venivamo da altre squadre, ma c'erano sette-otto giocatori cresciuti nel settore giovanile dell'Inter. Loro ci hanno aiutato a capire tante cose, ad esempio a capire cosa volesse dire il derby contro il Milan che per noi era un'esperienza nuova. Era anche il modo come si viveva allora la squadra, non c'erano tv in camera, pc o cellullari, noi ci trovavamo in dieci-dodici in una stanza quando eravamo in ritiro, a parlare, divertirci, avevamo creato un gruppo importante.
Il derby del 'Becca' e il trionfale 4-0 sulla Juventus
Il primo derby della stagione 1979/80 vinto 2-0 dall'Inter viene ricordato come il 'suo' derby, ci racconta quella partita?
Venivo da una settimana dove i giornalisti discutevano sul fatto che non dovessi giocare contro il Milan.
Soprattutto per il campo pesante, aveva piovuto molto e c'era un terreno di gioco davvero difficile quel giorno. Invece ho giocato e ho fatto due gol che mi porterò sempre dentro con grande gioia. Nel calcio 'mai dire mai', a me queste cose davano molto fastidio: un giocatore può anche avere determinate caratteristiche, ma poi è sempre il campo a dire l'ultima parola. Vero che c'era un campo pesantissimo, ma ne sono uscito protagonista, ero contento per la vittoria, ma soprattutto per aver vinto la mia sfida, perché il rettangolo di gioco è ben diverso da quello di cui si parla fuori.
Dunque nel derby la mettevano in dubbio nella formazione titolare?
Sì, tra i giornalisti che facevano le 'probabili formazioni' c'erano diversi che mi avevano escluso.
Mi ha dato fastidio: un giocatore è bravo o meno bravo, può anche giocare male, ma addentrarsi in certi discorsi tra il sole e la pioggia e roba del genere lo trovo fuori luogo. Dunque ero ancora più contento: il campo era pesante, per qualcuno non ero fisicamente adatto a quelle condizioni, ma alla fine ho fatto due gol... della serie 'prendi e porta a casa'.
Il 4-0 alla Juve vi diede consapevolezza della vostra forza?
Fu una vittoria pesantissima perché la Juventus era la squadra più forte e metterla sotto così, con tutto San Siro che ci ha spinti dal primo all'ultimo minuto è stata una grande impresa che ci ha fatto capire che potevamo davvero giocarcela con tutti.
Nel girone di ritorno la squadra ebbe un lieve calo all'inizio dell'anno, poi tre vittorie di fila: Napoli, Catanzaro e il derby: dopo aver battuto il Milan anche al ritorno ci fu la consapevolezza che ormai lo scudetto era in cassaforte?
Non abbiamo mai fatto questo tipo di discorso, non c'era nemmeno il tempo appunto perché, ripeto, non eravamo 'calcolatori'.
Quando scendevamo in campo andavamo fortissimo, creavamo almeno sette-otto palle gol in ogni partita. Era una squadra ben costruita: davanti eravamo io, Altobelli e Muraro e poi, dietro, avevamo 'martelli' come Baresi, Marini, Oriali, Canuti o Bini, tutta gente 'pesante' che si faceva sentire. Il nostro compito era di finalizzare il grande lavoro che facevano questi giocatori che in campo non si risparmiavano mai. Rendevano le cose più facili a noi davanti e quando hai questo tipo di giocatori non puoi fare calcoli perché danno sempre il massimo.
La partita-scudetto
La partita che vi consegnò lo scudetto, quella con la Roma, fu però molto sofferta: uno scoppiettante 2-2 conquistato nei minuti finali. Come ricorda quel match?
Credo sia stata l'unica occasione in cui abbiamo avuto il 'braccino corto'.
La partita con la Roma fu diversa perché, per la prima volta, ci fermammo a pensare che c'era la possibilità di chiudere definitivamente il campionato. Un pensiero di cui si discuteva fin dalla mattina, siamo arrivati in campo e non eravamo sciolti come in altre partite. Siamo stati in bilico fino alla fine e poi è arrivato il gol di Mozzini, tra l'altro di destro che non era il suo piede. Non siamo stati brillanti perché, avendo capito che avevamo il campionato in mano, per la prima volta abbiamo sentito la pressione e quindi abbiamo fatto fatica.
'Sono Evaristo, scusate se insisto'
Ma il celebre adagio 'sono Evaristo scusate se insisto' fu lei a coniarlo?
No, non è una mia frase. Nacque in occasione dei due gol del derby.
Io stimavo tantissimo un grande giornalista che purtroppo non è più con noi: fu Beppe Viola che, uscendo da San Siro, ha sentito alcuni tifosi che dicevano 'hai visto il 'Becca' oggi che ha detto ad Albertosi 'mi chiamo Evaristo e scusate se insisto...'. Lui ha sentito questa frase, l'ha scritta e me la sono portata dietro per tutta la vita.
La frase 'oggi giochiamo in 10 o in 11' è vera o una leggenda metropolitana?
È verissima (ride di gusto): io ero un 'cane sciolto' di difficile gestione e quel periodo all'Inter è stato proprio il top della mia carriera perché avevo Bersellini che sapeva davvero come prendermi, con lui avevo un rapporto incredibile. Giusto l'altro giorno ho postato su Instagram un vecchio video e mi sono messo a ridere nel sentire la sua voce che diceva 'Beccalossi sono andato a vederlo una volta, ha fatto venti minuti che non ha preso palla, ma neanche per il fallo laterale'.
Mentre sentivo la sua voce mi veniva in mente quando una volta mi ha preso da solo nello spogliatoio dicendomi 'ma Becca... spiegami come fai a fare venti minuti senza prendere la palla'. Lui aveva già capito che doveva lavorare in un certo modo per farmi rendere al meglio. I compagni a volte venivamo da me dicendo 'Becca ci sei oggi? Giochiamo in 10 o in 11? Perché a secondo di come mi ero 'mosso' durante la settimana loro potevano capire se c'ero o non c'ero. Diciamo che a Milano mi sono inserito subito bene, non ero uno che stava molto in casa".
Bersellini e Fraizzoli
Bersellini era davvero un 'sergente di ferro'?
Ma no, per nulla. Lui aveva quella faccia che faceva un po' paura... poi c'è da dire che io avevo 22 anni ed è un'età in cui certe cose non le puoi capire bene.
Una volta mi ha tenuto in ritiro per una settimana alla Pinetina, praticamemte sequestrato. La domenica mi ricordo che ci fu Inter-Lazio dove ho segnato e sono stato il migliore in campo, prima di entrare gli dissi 'mister, va bene tutto, ma io non voglio restare in ritiro tutta la vita per giocare a calcio'. Lui mi ha spiegato che, per rendere al meglio, dovevo prendere come esempio quella settimana di ritiro, alla fine è stato un gesto di grande stima nei miei confronti. Bersellini aveva quell'immagine del 'sergente di ferro', ma era tutt'altro, una persona dalla grande sensibilità che per tutti noi è stato molti importante.
Il presidente Ivanoe Fraizzoli e Sandro Mazzola, il suo rappporto con loro?
Ivanoe Fraizzoli e Lady Renata per noi erano come genitori aggiunti.
Venivano il sabato, era come vivere in famiglia. Mazzola mi ha portato all'Inter e per questo gli sono molto legato. Diciamo che vivevamo di più, come figure di riferimento, Bersellini e Fraizzoli, mentre Mazzola assieme a Beltrami erano i dirigenti che dovevano far quadrare tutto, c'era un rapporto diverso.
Lo scandalo del 'calcioscommesse'
La stagione 1979/80 fu anche la prima del calcioscommesse in cui il calcio finì nelle aule giudiziarie, scandalo al quale è giusto sottolineare che l'Inter fu completamente estranea. Cosa pensò in quel momento dinanzi ad una notizia tanto sconvolgente?
Ci siamo isolati, quelle notizie sono state una 'botta' per tutti. Eravamo tutti scioccati, fu davvero una brutta cosa per il mondo del calcio anche perché, di preciso, non sapevamo davvero cosa stava succedendo.
Abbiamo preferito stare tra noi evitando contatti con il mondo esterno per restare concentrati su quello che era il nostro obiettivo.
La Coppa dei Campioni e la nazionale
Quell'Inter dimostrò di poter arrivare lontano anche in Europa, rimpianti per la semifinale di Coppa dei Campioni della stagione successiva?
Nessun rimpianto, il Real Madrid era più forte, aveva gente come Santilliana, Juanito, del Bosque, Camacho e Stielike. Giocare al Bernabeu davanti a 100mila persone era durissimo: alla fine abbiamo dato tutto, perdemmo 0-2 a Madrid riuscendo poi a vincere in casa, 1-0 con gol di Bini. Serata stupenda con San Siro strapieno dove siamo riusciti a metterli sotto e potevamo anche andare ai supplementari.
A proposito di rimpianti, ancora oggi si discute su pagine social dedicate al calcio degli anni '80 della sua mancata convocazione in nazionale. Con il senno di poi, secondo lei perché Bearzot non le concesse una chance?
Intanto partiamo da una cosa: ho avuto una bella carriera e non ho nessun rimpianto. Mi sono preso tante soddisfazioni: ho fatto quello che volevo, mi sono divertito un sacco e all'Inter ho lasciato un buon ricordo, ci sono giocatori che hanno fatto molto più del sottoscritto, ma essere ricordato con affetto e simpatia dopo tanti anni è molto gratificante in una squadra che ha avuto tantissimi grandi campioni, prima e dopo di me. La nazionale, beh... io credo che per quello che avevo fatto meritavo di essere tra i 22 (il riferimento è alla rosa dei convocati per i Mondiali di Spagna 1982, ndr). Bearzot aveva puntato su 15-16 giocatori, la squadra l'aveva già in mente e gli unici due che meritavamo di far parte di quel gruppo, tra quelli che non sono stati convocati, eravamo sicuramente io e Pruzzo che per due anni di fila era stato capocannoniere della Serie A. Ma a distanza di anni, se fossimo andati anche noi in Spagna credo sarebbe stato difficile gestire una rosa con tanti possibili titolari. Lui ha scelto determinati giocatori ed è andato in fino in fondo con questi: giusto o sbagliato che sia, ha fatto la sua scelta e alla fine se vinci i Mondiali battendo Argentina, Brasile e Germania, non c'è dubbio che hai fatto le scelte giuste.