Non possiamo non citare una fonte autorevole, quella del "New York Times". Lo scorso 7 agosto, in un articolo relativo all'assedio di Aleppo che puntava l'attenzione sulla controffensiva scatenata dalle forze ribelli al regime siriano, i colleghi Ben Hubbard e Maher Samaan hanno usato la frase "Rebel forces and their jihadist allies", le forze ribelli ed i loro alleati jiahdisti.

Parole che lasciano sgomenti anche se, alla fine, non sorprendono più di tanto se si conosce a fondo la questione siriana. Più che altro sarebbe il caso che determinati politici occidentali, ad iniziare dal nostro ministro degli esteri Paolo Gentiloni, la smettessero di usare il termine "ribelli moderati". La rivoluzione siriana, ormai è storia nota, è stata spacciata come rivolta popolare contro un regime ma nasce dalla spinta di altre nazioni come Turchia, Arabia Saudita e Qatar che avevano ed hanno tutto l'interesse nel rovesciare l'attuale governo siriano.

I jihadisti siriani

Beneficiari di questi aiuti sono stati anche tanti gruppi di matrice jiahdista che si sono uniti alla lotta.

Sono forze sunnite salafite come Harakat Nour al-Din al-Zenki che in passato ha diffuso video di feroci esecuzioni (tra le vittime anche un bambino) o Jabhat Fateh al-Sham, il nuovo nome assunto dal Fronte Al Nusra che alla fine di luglio ha annunciato la sua rottura con Al Qaeda nel tentativo di evitare la mannaia dell'occidente. In maggioranza si tratta di siriani: prima che la gente parli di Isis è doveroso sottolineare come le milizie dello Stato Islamico non siano alleate di nessuna di queste fazioni e stiano combattendo una guerra contro tutto e tutti. I ribelli ed i loro alleati jiahdisti, tanto per citare ancora il "New York Times", vedono gli uomini del Califfato come invasori stranieri e non hanno tutti i torti.