Alla voce “integrazione” il vocabolario Treccani recita: «Inserzione, incorporazione, assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita (contrapp. a segregazione)».
In riferimento ai rapporti tra le cosiddette Nazioni occidentali e le rispettive comunità di religione islamica il vocabolo si è concretizzato negli anni in un processo complesso, multisfaccettato, segnato per entrambe le parti da altalenanti atteggiamenti di maggiore o minore apertura al dialogo, influenzati molto spesso dai fatti di cronaca più o meno drammatici che si verificano nel mondo.
Antecedente alla polemica estiva sul “burkini”, poiché risalente nelle origini alla proposta del consigliere regionale Alberto Villanova (Lista Zaia) presentata a inizio anno, è il progetto di introdurre nella Regione Veneto il divieto d’indossare nei luoghi pubblici quali uffici della Regione, Asl e ospedali caschi da motocicletta o altro analogo mezzo di copertura del volto che impedisca od ostacoli la chiara identificazione della persona, comprendendo nella casistica messa al bando anche indumenti rimandanti ad un’espressione culturale, etnica o religiosa.
Un progetto che, sostanzialmente, ha trovato sostegno unanime tra gli scranni di Palazzo Ferro Fini sede del Consiglio regionale - anche tra le fila dei Dem, pur con l’invito a mantenersi saldi sull’aspetto della sicurezza senza abbandonarsi a derive propagandistiche – e che, in base alle dichiarazioni del presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti (Liga Veneta – Lega Nord), dovrebbe essere discusso in aula per poter diventare legge già ad autunno.
A livello nazionale, l'uso del burqa come è interpretato?
Iniziative analoghe a questa sono già state promosse sia a livello regionale (dal primo gennaio 2016 in tutta la Lombardia, anche se, per il momento, non è stata riscontrata applicazione) che comunale (ad Azzano Decimo in provincia di Pordenone, a Drezzo in provincia di Como, a Cantù in Brianza, a Treviso e altrove: tutte leggi poi stroncate dai Tribunali). Ma come si esprime la normativa su scala nazionale?
A definire la regolamentazione del volto coperto in Italia è la legge 152 del 1975, modificata in senso maggiormente restrittivo nel 1977, che, all’articolo 5, vieta: «l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo». In mancanza, dunque, di un esplicito riferimento a capi di abbigliamento quali burqa e niqab, tutto ruota inevitabilmente intorno all’interpretazione della locuzione “senza giustificato motivo”.
A fare dottrina, per il momento, proprio il caso di Azzano Decimo: alla stroncatura del Prefetto di Pordenone verso l’azione della Giunta, che intendeva estendere ai «veli che coprono il volto» la condizione di irregolarità rispetto al divieto di «comparire mascherati in pubblico» e di «rendere difficoltoso il riconoscimento», è seguita tutta una serie di corsi e di ricorsi che ha coinvolto Tar e, infine, Consiglio di Stato.
In entrambi i gradi è stato dato torto all’azione del Sindaco, e proprio la sentenza del Consiglio di Stato del 2008 è quella che attualmente si pone come precedente cui guardare nella valutazione giuridica della questione. Si legge che il primo cittadino di Azzano Decimo «ha fornito una (errata) interpretazione della legge», che, in relazione al burqa, esso «generalmente non è diretto a evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture» e ancora che «Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento. […] Il nostro ordinamento consente che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali».