La Suprema Corte torna sull’annosa (ma sempre attuale) questione della ripartizione dell’onere della prova in tema di responsabilità da cose in custodia prevista dall’art. 2051 c.c., ancora una volta in favore degli utenti della strada. La Cassazione nella recentissima decisione (ordinanza di cassazione e rinvio alla Corte di Appello di Catanzaro n. 17625/16 del 05.09.2016) ha ribadito che nelle cause di risarcimento dei danni derivanti dal manto stradale sconnesso è l’Ente “custode della strada” che ha l’onere di dimostrare l’eventuale colpa (o concorso di colpa) della vittima nelle determinazione del danno.
Non è il danneggiato a dover dimostrare (oltre al nesso causale) la “obiettiva pericolosità della strada”, ma è l’Ente che, se vuole andare esente dalla responsabilità prevista dall’art. 2051 c.c., deve dimostrare che il danneggiato abbia colpevolmente contribuito a determinare il danno a se stesso (anche in linea con la precedente ordinanza del 20.10.2015 n. 21212). Il giudice di secondo grado, pur ammettendo l’esistenza del nesso di causa, aveva rigettato la domanda in virtù dell’assenza di colpa dell’Ente, confondendo la prova del nesso di causa con quella dell’assenza di colpa.
Le parole della Corte: «Una volta accertata l'esistenza d'un nesso di causa tra la cosa in custodia ed il danno, è onere del custode - per sottrarsi alla responsabilità di cui all'articolo 2051 c.c.
- provare la colpa esclusiva o concorrente del danneggiato (che può desumersi anche dalla agevole evitabilità del pericolo), mentre deve escludersi che la vittima, una volta provato il nesso di causa, per ottenere la condanna del custode debba anche provare la pericolosità della cosa».
La ripartizione dell’onere della prova: le pericolosità come indice del nesso causale
La Corte specifica anche in che modo va ripartito l’onere della prova tra il danneggiato e l’Ente custode della strada. Se il danno deriva da cose dotate di “intrinseco dinamismo”, la vittima deve dimostrare solamente il nesso di causalità tra la cosa stessa ed il danno, ma non deve dimostrare la “pericolosità della cosa”.
Se invece il danno è provocato da cose inerti (marciapiedi, strade ecc..) il danneggiato può dimostrare il nesso di causalità attraverso la pericolosità della cosa. In sostanza la pericolosità della cosa (la strada) è indice del nesso di causalità tra la cosa inerte ed il danno (ai sensi dell’art.
2727 c.c.): se la strada non è pericolosa, di conseguenza manca anche il nesso di causalità e pertanto il risarcimento sarà negato. “Dal fatto noto che quella cosa fosse pericolosa il giudice può risalire al fatto ignorato dell’esistenza del nesso di causa; mentre dal fatto noto che non lo fosse potrà risalire al fatto ignorato che sia stata la distrazione della vittima a provocare il danno” (cfr. sentenza in esame).
La vittima, dimostrando il nesso causale (anche attraverso la pericolosità della stessa) costringerà il Comune a dover provare la propria assenza di colpa. Gli ermellini pertanto hanno cassato la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro che aveva invece negato il risarcimento basandosi solo sulla (errata) considerazione che la strada “non pericolosa” potesse escludere la responsabilità dell’Ente. La Cassazione conclude così: “anche il proprietario di cose non pericolose risponde ex art. 20151 c.c. una volta appurato un valido nesso di causa tra cosa e danno”.