E’ giunta da Londra la notizia del respingimento formale della proposta sulle quote straniere, che da qualche giorno aveva sollevato il classico polverone destinato di nuovo a infangare l’immagine dei Tories.
Ne ha dato notizia ufficiale la ministra dell’Istruzione Justine Greening, la quale ha precisato che il governo britannico non esigerà più la black list dei lavoratori stranieri in forza presso le aziende del Regno Unito, ma si limiterà esclusivamente a richiedere una serie di dati, strettamente riservati, per poter individuare e di conseguenza sanare i vuoti occupazionali nel Paese.
"British jobs for British workers": una proposta discriminatoria.
L’idea di costringere i datori di lavoro a un “inventario” dei dipendenti stranieri, comunitari e non comunitari, presenti sul suolo britannico, era venuta fuori martedì scorso, al termine della Tory conference tenutasi a Birmingham.
Il suo obiettivo, neppure troppo implicito, sarebbe stato quello di penalizzare le imprese che avessero preferito manodopera proveniente dall’estero anziché britannica, rendendo pubblici i libri paga e avviare così un processo di vero e proprio “ostracismo”, sobillato dal malcontento e dai più strenui sostenitori della Brexit.
La neoministra degli Interni Amber Rudd, ideatrice della proposta, non aveva tardato a raccogliere una lunga fila di dissensi, nonché una vera e propria condanna da parte dei labouristi di Jeremy Corbyn, che l’avevano definita “razzista e pronta a soffiare sul fuoco della xenofobia”.
Persino la prima ministra scozzese Nicola Sturgeon si era affrettata a prendere le distanze dalla proposta passata subito in fase “di consultazione”, mentre i membri dell’SNP (Scottish National Party) si erano espressi in merito con un laconico: “la più sciagurata dimostrazione di Politica di destra in tempi recenti”. Al coro dell’indignazione proveniente dal mondo politico, aveva infine preso parte la multinazionale “Nissan”, che tramite dei portavoce aveva fatto sapere senza giri di parole che, qualora la misura fosse stata approvata, non avrebbe esitato a chiudere le proprie sedi nel Regno Unito, concentrando altrove la propria forza lavoro. Quando si dice “chi di spada ferisce”, dato che la chiusura del colosso nipponico avrebbe finito per danneggiare non solo gli immigrati, ma quella stessa working class che tanto animatamente si era scagliata contro i migranti economici, votando in massa a favore del Leave.
Insomma, mentre la prima ministra inglese Theresa May è impegnata a occultare la fastidiosa eredità di David Cameron per conquistarsi la simpatia della classe operaia che, in fondo, non le va esattamente a genio, Amber Rudd la fa grossa e non sono bastate le giustificazioni rilasciate alla BBC, con le quali ha cercato invano di non farsi bollare come razzista.
L’etichetta, dopotutto, si aggiunge a quella che le era stata già affibbiata all’indomani della scoperta dei suoi conti nel paradiso fiscale delle Bahamas, che più che per di cronaca, per amor di fair play preferiamo non riportare.