Era evaso dall’ospedale di Locri, in provincia di Reggio Calabria, nel settembre del 2011. Antonio Pelle, capo indiscusso dell’omonima cosca della ‘ndrangheta spadroneggiante a San Luca, in quel periodo era in cura presso il nosocomio locrese per un’anoressia indotta attraverso medicinali dimagranti e perizie mediche compiacenti. All’alba di stamane gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria lo hanno scovato in contrada Ricciolo, nel territorio di Bovalino, nascosto come un topo in un rifugio orizzontale ricavato sopra un armadio dotato di una brandina e di altri oggetti.
Il latitante accedeva alla sua tana mediante un’intercapedine nella parete, simile all’apertura di una cassaforte. All’operazione, durata diverse ore, hanno preso parte oltre 50 agenti: “Lo abbiamo cercato ovunque e lo abbiamo trovato a casa sua, a dimostrazione del fatto che un capo cosca non si allontana mai dal proprio territorio” ha dichiarato il procuratore della Dda, Federico Cafiero de Raho.
Il boss chiamato “mamma”
Antonio Pelle, 54 anni, soprannominato “vancheddu” era anche conosciuto come “mamma”. Potrebbe sembrare un ossimoro, ma così non è. Nel linguaggio simbolico e malato in uso agli ‘ndranghetisti, il termine “mamma” vuol dire capo.
Colui che comanda la famiglia. Famiglia che corrisponde alla ‘ndrina, unità su cui ruota l’intera organizzazione della ‘ndrangheta calabrese. A confermare lo stravolgimento simbolico del termine è stato il collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese, quando raccontò ai magistrati che il capo cosca “per noi sarebbe come una mamma che ci accoglie. La mamma è la figura che accoglie i figli simbolicamente ed è da lei che dobbiamo sempre andare”.
Antonio Pelle, criminale incallito e mafioso senza scrupoli e onore, deve scontare 20 anni di reclusione. Il suo nome era nell’elenco dei 100 ricercati più pericolosi del paese e stava addirittura per essere inserito tra i primi 10. Un primato indegno, ottenuto con la vile strage di Natale del 2006 che costò la vita a Maria Strangio e che ha scatenato la reazione della cosca rivale culminata con l’eccidio di Duisburg del 2008.
Episodi criminali drammatici che s’inquadrano nell’ambito della faida di San Luca tra i Pelle-Vottari-Romeo da un lato e i Nirta-Strangio dall’altro. Una guerra che dal 1991 lascia per le strade di San Luca e non solo, decine di morti ammazzati.
Arresti ed evasioni
Il capobastone era stato tratto in arresto la prima volta dalla squadra mobile di Reggio Calabria e dallo Sco di Roma il 16 ottobre del 2008, dopo un anno di latitanza. Coinvolto nell’operazione Fehida condotta contro le consorterie in guerra a San Luca, il capocosca era stato pizzicato in un bunker ricavato all’interno di un capannone in costruzione ad Ardore Marina. Si trattava bene la “mamma”: soggiornava in un piccolo appartamento dotato di camera da letto, un bagno e una cucina, oltre ad una serie di dispositivi tecnologici e comodità di vario tipo. All’interno, per non farsi mancare nulla, era presente anche una piccola piantagione di canapa indiana, creata, probabilmente, per dare libero sfogo al pollice verde del boss Pelle.
Sbattuto in gabbia, nell’aprile del 2011, la Corte d’Appello di Reggio Calabria gli concesse gli arresti domiciliari per una grave forma di anoressia.
Qualche mese dopo venne ricoverato per un malore all’ospedale di Locri. Senza un piantonamento fisso, ma sottoposto a controlli saltuari da parte delle forze dell’ordine, il pericolosissimo capomafia si allontanò tranquillamente dalla sua stanza di degenza nel pomeriggio del 14 settembre. In pochi istanti fece perdere le sue tracce, anche perché quella malattia che lui stesso aveva scientificamente progettato e utilizzato come strumento sicuro di fuga, non lo aveva per niente indebolito: “se scendo sotto i 50 kg mi mandano ai domiciliari”, confidava in cella ai suoi compari. E così è stato.