Totò Riina è morto all'alba del 17 novembre 2017, alla fine il suo fisico devastato dalle tante patologie non è riuscito a sopportare gli ultimi due interventi chirurgici ai quali era stato sottoposto. Già nella giornata del 16 novembre (il giorno del suo 87esimo compleanno), quando è stato permesso ai familiari di stargli vicino, era evidente che la vita di uno dei criminali più temuti e spietati della storia d'Italia fosse ormai giunta al capolinea.

Si è dunque spento a Parma, nel reparto dell'ospedale riservato ai detenuti: non entriamo nel merito di una morte ormai annunciata da mesi, considerato che le sue condizioni di salute erano precarie da tempo, e nemmeno delle polemiche dei mesi scorsi quando era stata ventilata la possibilità di concedergli i domiciliari per consentirgli di trascorrere a casa gli ultimi mesi di vita. Riina non era un detenuto come gli altri ed in tal senso la Direzione Nazionale Antimafia non ha mai avuto dubbi: era ancora lui il capo dei capi della mafia siciliana, nonostante fosse ormai relegato al ruolo di un vecchio monolito, ingombrante anche per la stessa organizzazione criminale.

Ora che l'anziano boss corleonese è morto a poco più di un anno di distanza da Bernardo Provenzano, c'è l'eventualità inquietante che all'interno di Cosa Nostra possa aprirsi una nuova scalata verso i vertici: sempre che esista ancora una 'Cupola' come quella descritta da Tommaso Buscetta nel famoso maxiprocesso. Con la morte dell'ultimo 'padrino' viene archiviata una delle pagine più sanguinose della storia del Paese e, con essa, anche i tanti misteri che la circondando e che adesso saranno sepolti per sempre con Riina.

L'ascesa criminale

Sulla carriera criminale di Totà Riina esistono interminabili atti processuali che sono stati trasformati in un libro ed anche in una fiction televisiva di successo.

L'ascesa verso i vertici di Cosa Nostra parte alla fine degli anni '50 quando il gruppo 'ribelle' guidato da Luciano Liggio che annovera anche Riina e Provenzano uccide il boss Michele Navarra e ne prende il posto alla guida del mandamento di Corleone. Ma è un borgo di potere fin troppo piccolo per le ambizioni di Riina il cui ruolo cresce, fino ad oscurare quello di Luciano Liggio. La sua latitanza inizia nel 1969, la feroce guerra per conquistare il controllo assoluto dell'organizzazione parte con la cruenta strage di Viale Lazio dello stesso anno in cui viene ucciso il boss palermitano, capo della famiglia dell'Acquasanta, Michele Cavataio (nella circostanza muore anche Calogero Bagarella, cognato di Riina).

Nel frattempo, anche a causa delle condizioni di salute di Liggio, lo sostituisce spesso nei 'summit' mafiosi in rappresentanza dei corleonesi e diventa uno dei punti di riferimento della Cupola insieme a Stefano Bontate e Gateano Badalamenti che con Liggio avevano costituito il 'triumvirato' provvisorio alla guida della mafia siciliana. 'Lucianeddu' sarà arrestato nel 1974, Riina diventa dunque il punto di riferimento indiscusso dei corleonesi e dà inizio alla guerra di mafia più violenta della storia. In poco più di un anno, a partire dalla primavera del 1981, muoiono sotto i colpi dei sicari di Riina e degli altri boss a lui alleati oltre 200 mafiosi vicini alla fazione di Bontate, Badalamenti e Salvatore Inzerillo.

Bontate viene ucciso il 23 aprile, Inzerillo l'11 maggio, Badalementi invece riesce a fuggire in Brasile (dove sarà arrestato nel 1984). Nel 1982, Totò Riina diventa l'indiscusso capo dei capi.

Guerra allo Stato

I corleonesi rompono i ponti con il passato e dichiarano apertamente guerra allo Stato italiano, ma nel contempo riescono a piazzare i loro 'uomini' all'interno delle istituzioni. I casi più eclatanti sono certamente quelli del sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, e dell'eurodeputato Salvo Lima, il politico più influente della DC in Sicilia. Nel contempo vengono eliminati politici 'scomodi' come il segreratio provinciale della DC palermitana, Michele Reina; il presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella, ed il leader del Partito Comunista siciliano, Pio La Torre.

Lo Stato risponde negli anni '80 con la creazione del pool antimafia e l'incardinamento del primo maxiprocesso. La sentenza in primo grado condanna Riina a svariati ergastoli (1987), tuttavia il capo dei capi spera in una revisione grazie ai suoi contatti politici di spessore. Le sue speranze franano nel gennaio del 1992, quando la Cassazione conferma le sentenze: da lì parte l'allucinante vendetta di Cosa Nostra.

Le stragi e l'arresto

Il primo regolamento di conti è interno, il 12 marzo 1992 viene ucciso Salvo Lima ed alcuni mesi dopo tocca ad Ignazio Salvo. Poi l'attacco frontale allo Stato, le stragi di Capaci e Via d'Amelio in cui trovano la morte i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte.

Successivamente a questi eventi sarebbe iniziata la presunta trattativa ancora al centro di un processo, ma alla richiesta di un accordo da parte di esponenti dello Stato italiano, Riina avrebbe risposto con il famoso 'papello' in cui il boss corleonese detta le sue inaccettabili condizioni indirizzate ad ottenere la revisione del maxiprocesso, a cancellare il carcere duro per i boss e la legge sui collaboratori di giustizia. La vera risposta dello Stato si concretizza dunque con l'arresto di Riina, nel gennaio del 1993, effettuato dai carabinieri della squadra speciale dei Ros.

I misteri irrisolti

Qui i punti interrogativi sono tanti: ci si chiede come si sia arrivati all'arresto di Riina e non di Bernardo Provenzano, consentendo a quest'ultimo di riorganizzare Cosa Nostra e di far tacere le armi.

Le circostanze che hanno portato all'individuazione del capo dei capi sono insolite, a partire dall'arresto di Balduccio Di Maggio a Borgomanero, in provincia di Varese, durante una normale operazione di controllo del territorio dei carabinieri: quest'ultimo ammise subito di essere un uomo di Riina e la sua collaborazione si rivelò decisiva nella cattura del latitante più ricercato d'Italia. Ma se andiamo indietro nel tempo, si potrebbe parlare di tante cose: la borsa del giudice Borsellino portata via da un carabiniere nel giorno successivo alla sua morte e rinvenuta senza la famosa 'agenda rossa'. Secondo tesi piuttosto note e mai provate, Paolo Borsellino sarebbe stato a conoscenza di contatti tra pezzi dello Stato e mafiosi.

Lo stesso processo per la strage di Via d'Amelio ha avuto numerosi capitoli prima di arrivare ad una sentenza. Quella definitiva parte dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Spatuzza, Fabio Tranchina e Cosimo D'Amato, esponenti del mandamento di Brancaccio che avrebbe avuto la responsabilità diretta dell'esecuzione: Spatuzza ha dichiarato di aver rubato la Fiat 126 usata come autobomba, ad azionare il telecomando sarebbe stato Giuseppe Graviano. Rivelazioni che hanno fatto crollare i precedenti impianti giudiziari sul caso, secondo le quali l'uccisione di Borsellino sarebbe stata decisa nel dicembre del 1991 e, dunque, prima della sentenza del maxiprocesso. La messa in atto sarebbe stata ritardata soltanto per gli eventi successivi legati ai regolamenti di conti ordinati da Riina contro quei politici che lo avevano 'tradito' e, pertanto, rientra in un piano già elaborato prima del tragico 1992.

La regia occulta

Tanti di questi punti interrogativi avrebbe potuto svelarli Totò Riina, ma negli anni in cui è stato sentito nei vari procedimenti è sempre stato di granito. In aula non ha mai dichiarato nulla, esistono però le sue dichiarazioni 'informali' rilasciate a due agenti di polizia penitenziaria il 21 maggio 2013, quando il boss era collegato in videconferenza dal carcere 'Opera' di Milano con l'aula bunker dell'Ucciardone di Palermo, dove si celebrava un'udienza del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Ai poliziotti che lo accompagnano, Riina dichiara che "erano gli altri che lo cercavano per trattare", che il suo arresto "è colpa di Provenzano", che non ha mai baciato Giulio Andreotti e che, soprattutto, lui non c'entrava nulla con la Strage di Capaci.

"Ha fatto tutto Brusca e c'era la mano dei servizi segreti". Lo scorso gennaio si era creato tanto clamore mediatico, Riina aveva annunciato la sua intenzione di rispondere alle domande dei pubblici ministeri sulla trattativa. Avrebbe cambiato idea pochi giorni dopo. Troppi nodi sono ancora legati a quel periodo e l'impressione è che non saranno mai sciolti: in buona parte il capo dei capi li ha portati nella tomba. Cancellati dalla memoria perché non c'è più nessuno che possa ricostruirli, come il notebook di Giovanni Falcone la cui memoria, appunto, venne cancellata o la cassaforte del generale Dalla Chiesa che venne svuotata di importanti documenti e la cui chiave era misteriosamente scomparsa.

Come se in ogni circostanza una regia occulta si muovesse dietro le quinte di ogni singolo evento, pronta ad intervenire per correggerne il copione. Lo avrebbe detto anche Giuseppe Ayala, uno dei pochi collaboratori del pool antimafia ancora in vita, e lo avrebbe scritto a chiare lettere in uno dei suoi libri. Oggi siamo ai titoli di coda, il vero finale non lo saprà mai nessuno.