Anno 1999. Schermo nero, una scritta bianca estremamente essenziale. Questo era l’opening di The Blair Witch Project, destinato a segnare il mondo del cinema e a indirizzare il genere horror verso un senso di realismo (o pseudo tale) e di realtà che inquieta e carica di paura autentica. Forse perché agiva a livello inconscio, forse perché razionalmente la mente di chi guardava registrava il filmato alla stregua del filmino delle vacanze (ma molto più terrificante) e lo esiliava dal mondo della fantasia per ufficializzarlo come episodio non spiegabile e assolutamente realistico. Il lavoro di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez raccontava la storia della scomparsa di Heather, Joshua e Michael, e lo faceva in un linguaggio nuovo che diede vita ad un filone del genere: il mockumentary, dove la paura era realistica in ogni dettaglio, dalla trama alle caratterizzazioni dei personaggi a, soprattutto, il formato comunicativo.
In un'epoca dove il marketing era ancora agli inizi della gloriosa epoca moderna, The Blair Witch Project venne supportato da una campagna promozionale che divenne virale in poco tempo grazie ai suoi genuini punti di forza: il realismo e un veicolo comunicativo improntato alla realtà dei fatti.
Dunque largo spazio a video simil-amatoriali, dossier, interviste e reportage su indagini della polizia. Fu questo l’inizio di una stagione di riprese in soggettiva e immagini rubate e poste nelle sequenze dei found footage del momento – e la lista è lunga, dai sequel della strega di Blair al fortunato Paranormal Activity e al titubante ESP. E poi quest’anno, quando si ritorna nel bosco della Strega di Blar nel Maryland con Blair WItch.
La Strega di Blair è tornata
Il regista che riesuma The Blair Witch è Adam Wingard, il quale affida al protagonista James l’ingrato compito di ritrovare sua sorella Heather, scomparsa 20 anni fa nel bosco maledetto.
E in questa propensione alla ricerca si crea una sorta di parallelismo tra personaggio e regista, entrambi alla ricerca di qualcosa (uno di sua sorella, l’altro della storia da raccontare) ed entrambi utilizzano un auto-racconto della loro ricerca, ormai tradizionalmente improntata al realismo e all’auto-cattura della loro verità.
E i luoghi della loro ricerca sono gli stessi: quegli angoli boschivi e misteriosi del Maryland. Il punto di partenza è uno spunto di meta cinema, un video amatoriale apparso online nel quale si scorge il volto di Heather in seguito al quale James mette insieme una squadra di ricerca composta anche dagli autori del filmato.Una ricerca mossa non dalla curiosità come nel film del ’99, ma da un senso di ansia e di dovere, che si percepisce lungo tutta la pellicola ma che non sfocia, come giusto che sia, in qualcosa di completo e di definito.
Non si arriva cioè ad un terrore propriamente percepito, ma ad un ansia da terrore.
Si espande anche la consapevolezza tecnologica dei video maker che ovviamente partono più preparati dei loro predecessori e approfondiscono il ritmo narrativo in modo efficiente, anche troppo a dire il vero. Droni? Camere auricolari? Saranno anche un mezzo di gestione puramente ovvio nella versione del 2016, ma lasciano trapelare un po’ troppo anche l’ansia da prestazione del regista.
Il vero punto positivo è l’effetto claustrofobico del film, che assale e colpisce tutti: regista, protagonisti e spettatori. Già, perché il bosco della strega si chiude su chi lo osserva, che si ritrova sempre più in basso (metafora?) e perde di vista luce, aria e speranza in una dimensione dove il mondo delle regole – siano esse fisiche o semplicemente di convivenza – non esistono più. Ci si immerge in un mondo di mistero, soprannaturale e terribili accadimenti, in una escalation dell’horror che un po’ convince ma non del tutto.