Chiude 55 anni fa una delle strutture carcerarie più famose di sempre, Alcatraz, la leggendaria Prigione californiana posta su un’isola a due chilometri dalle spiagge di San Francisco. Da più di mezzo secolo la struttura non è più in funzione come un istituto correttivo, tuttavia pochi anni dopo la sua chiusura è diventato un museo, un pezzo di storia moderna americana legato al fascino perverso verso la criminalità (molti criminali vengono seguiti come delle star, e allo stesso modo Alcatraz esercita del fascino sul pubblico).

La popolarità della struttura la classifica al primo posto tra le prigioni più famose del mondo, tuttavia non molti sono a conoscenza del perché 55 anni fa fu chiusa.

La pressione psicologica di Alcatraz

Alcatraz era una prigione di massima sicurezza a 2 km dalla costa, nessun carcerato è mai riuscito ad evadere senza perdere la vita durante il tentativo di fuga; tuttavia Hollywood ha descritto più volte questi episodi in diversi film, noi oggi ci soffermeremo su quello che succedeva dentro la struttura, e come si è guadagnata il titolo di “massima sicurezza”. È una credenza comune, infatti, che muri alti e filo spinato facciano di una prigione un luogo senza via di fuga; falso, Alcatraz fu un carcere di massima sicurezza per la pressione psicologica che veniva esercitata sui detenuti.

Partiamo con una breve premessa, nella prigione californiana venivano mandati per lo più detenuti non qualificati per la società, individui pericolosi che non sarebbero mai stati in grado di essere reinseriti tra la folla, ed è per questo che i trattamenti a loro riservati erano mirati a distruggere la loro forza di volontà per renderli docili.

L’impotenza appresa come obbiettivo

Da un punto di vista psicologico la vita dentro un carcere come Alcatraz doveva essere molto dura se non al limite della sopportazione: l’obbiettivo era quello di demotivare, demolire e ricostruire la forza d’animo dei detenuti. I livelli di stress venivano mantenuti molto alti attraverso episodi di bullismo tra le guardie e i detenuti, esercizi di potere e violenza; così facendo si innalzava la probabilità di depressione e burnout tra i carcerati.

Il burnout, che potremmo descrivere brevemente come un esaurimento psicofisico, porta la vittima a subire il mondo circostante dando la percezione di non avere più il controllo sugli eventi che lo caratterizzano. Una delle conseguenze più comuni del burnout non curato è l’impotenza appresa, ovvero la rassegnazione di fronte agli eventi negativi subiti e vissuti. Un trattamento di questo genere portava i detenuti al limite della sopportazione, ed è anche per questo che nonostante le minime probabilità di successo, ben 36 detenuti provarono ad evadere dalla struttura negli ultimi anni di attività della struttura.