E' di tutta evidenza che per risolvere il problema della violenza negli (e intorno agli) stadi di calcio non basta proporre che le società paghino di tasca propria le spese per la sicurezza, come afferma il premier Renzi.
A prescindere dalla volontà politica, la proposta appare oggettivamente di difficile attuazione. Cosa dovrebbero fare le società sportive? Dotarsi di una sorta di polizia privata che interviene ogni qualvolta c'è da sedare una rissa tra tifosi no, perché l'uso della forza in funzione di ordine pubblico è una prerogativa che appartiene esclusivamente allo Stato che non può delegarla a terzi.
Chiedere alle società il rimborso delle spese sostenute dalla collettività per garantire l'ordine pubblico in occasione delle sfide sportive, in teoria, è possibile ma dove recupererebbero queste ultime il denaro necessario? Tagliando i compensi milionari dei calciatori? Improbabile che vogliano correre il rischio di aprire un contenzioso con una controparte tanto forte. Meglio un contenzioso, semmai, con lo Stato sugli eventuali rimborsi dovuti. La materia si presta, gli azzeccagarbugli non mancano e i tempi dei ricorsi non sono mai stati rapidi. E intanto l'onesto cittadino continuerebbe a pagare di tasca propria.
Soluzioni a breve non ne vedono, a meno di sigillare gli stadi e giocare le partite a porte chiuse, come suggerisce qualche cittadino giustamente esasperato. Ma il rimedio, probabilmente, è peggiore del male.
Certo, si può inasprire lo strumento del DASPO e probabilmente è opportuno farlo, ma una risposta in termini esclusivamente repressivi può rivelarsi un'arma a doppio taglio.
La sola strada ragionevole da percorrere (non l'unica ma quella dalla quale non si può prescindere) è quella di pretendere che le società recidano i legami con le tifoserie degli ultrà.
Che non vuol dire, come accade adesso, prenderne le distanze e deprecarne i comportamenti violenti con un comunicato stampa quando accadono i disordini e ci scappa il morto o il ferito grave e poi continuare come se niente fosse a foraggiare le tifoserie e a usarle come massa di pressione, facendo dei leader della curva degli eroi e degli interlocutori autorevoli.
Significa invece promuovere e incentivare la cultura dello sport a partire da una scelta di campo precisa: quella di schierarsi pubblicamente dalla parte dei tanti tifosi pacifici, quelli che vanno allo stadio con la ragazza o col figlioletto per godersi lo spettacolo del calcio, e rompere i ponti, una volta per tutte, con la tifoseria violenta e con quei personaggi ambigui e dalla fedina penale non certo immacolata che nuotano nel brodo dell'entourage delle società sportive. Denunciandoli, se necessario, con tanto di nomi e cognomi.
Che le società non vogliano operare questo taglio netto è scontato: non ne hanno nessuna convenienza e anche se ne avessero alcune situazioni nel tempo si sono incistate a tal punto che estirparle è impresa ardua .
Che sia ormai una necessità è sotto gli occhi di tutti e certo al potere politico non mancano gli strumenti (quanto piuttosto la volontà politica) per costringere le società sportive a questo passo che lo stesso Presidente Giorgio Napolitano, commentando i fatti di sangue accaduti sabato scorso a Roma in occasione della finale di Coppa Italia, ha indicato come ineludibile.