Jamil, afghano, ha 32 anni. E’ a Berlino da 1 anno e mezzo. Ciononostante non ha ancora imparato la lingua e ammette che sarà molto difficile che un giorno riuscirà a parlare perfettamente il tedesco.

Vive con 135 euro al mese, oggi, negli stanzoni del LaGeso (Landesamt für Gesundheit und Soziales Berlin) il discusso Dipartimento per la Salute e gli Affari Sociali di Berlino, in stanzoni dove dormono (e mangiano) ammassati oltre 100 immigrati di diverse etnìe, in condizioni igienico-sanitarie al limite dell'umano.

Inizialmente erano poco più di 300, ma col passare del tempo il sussidio si è ridotto. E ora Jamil cerca lavoro, ma non riesce proprio a trovarlo.

Abbiamo scambiato due chiacchiere, in un giorno di cielo cupo e di pioggia come ce ne sono tanti da queste parti, alla fermata dell’autobus. Qualche parola in Urdu, poi abbiamo parlato inglese. Jamil, oltre all’Urdu e all’inglese, parla anche il Pashto, la sua lingua madre e il Pharsi. Mi ha mostrato con orgoglio – proprio come il mio amico siriano Mahmood qualche mese fa, generale disertore in fuga dall’esercito di Assad – le foto della sua famiglia.

Subito dopo, quelle di un gruppo di soldati in divisa. Tra cui lui, naturalmente. Ma questa volta sullo sfondo, invece delle macerie di Aleppo, c’erano le vette innevate dell’Hindu-Khush.

Sono solo due esempi, Jamil e Mahmood, tra decine di migliaia di casi simili, ma indicativi di come si sia infranto in Germania il sogno dell’integrazione. Un vero e proprio miraggio, un flop diremmo oggi, all’indomani dei gravi fatti di Wurzburg. Tanto per i politici e gli amministratori che lo hanno sostenuto, quanto per gli stessi rifugiati.

Una grossa bugia

Secondo Ramy-al-Asheq rifugiato siriano di Colonia, capo-redattore della rivista Abwab (Porte) l’integrazione è una grossa bugia.

In un ampio articolo che compare sulla testata online Al-Asheq afferma che bisogna distinguere fra una integrazione volontaria e un’integrazione forzata.

Tra le due – precisa Ramy – c’è una bella differenza. Il governo ha un suo punto di vista sull’integrazione, le ONG seguono il loro punto di vista, i rifugiati ancora un altro. Ed è questa differenza a determinare il caos cui assistiamo.

Il governo tedesco ha investito tutto nei corsi di lingue e in qualche sessione di orientamento al lavoro. Ma questo non è sufficiente.

La vera integrazione non può prescindere da una profonda conoscenza reciproca, al di là degli stereotipi. Integrazione e stereotipi vanno di pari passo, al pari del binomio integrazione e ignoranza. Si stanno creando delle minoranze - sottolinea Al-Asheb -  comunità composte da cittadini di serie B, ghetti. Di questo passo le cose sono destinate a peggiorare.

L’articolo di Ramy Al-Asheq affronta sicuramente un aspetto fondamentale riguardo al fenomeno accoglienza nell’odierna Germania. Ma c’è dell’altro. Una volta superato lo step prettamente burocratico, sistemati nei vari “Unterkuenfte” gli immigrati vengono lasciati soli o in mano a operatori volontari che in molti casi improvvisano interventi socio-assistenziali improbabili. E i centri non sono controllati. Parliamo di persone che arrivano in Europa dopo viaggi allucinanti, scioccati, traumatizzati, sconvolti. Tutti sanno che i centri di accoglienza sono spesso teatro di risse e aggressioni che quasi sempre passano sotto silenzio. E che questi stessi luoghi diventano in molti casi centri di spaccio, uso (e abuso) di sostanze stupefacenti. Ma nessuno ad oggi ha mosso un dito.