Essere calabrese non è stato mai facile, ma alla luce della squallida vicenda emersa nei giorni scorsi, l'imbarazzo è tale che quasi ci si vergogna di appartenere alla Calabria. Pertanto, non mi unirò al coro di chi tenta invano di difendere questa terra bella e altrettanto maledetta descrivendola per quello che non è, non mi unirò al coro di chi oggi urla che i calabresi non sono tutti uguali, mentre la complicità e la connivenza accrescono il cancro mafioso a dismisura.

Questa regione è forse anche peggio di come la si vuole fare apparire. Laddove maghi, preti e malavitosi possono sulle menti della gente più dei medici e delle istituzioni, la 'ndrangheta ha vita facile e di casi come questi saremo costretti a sentirne ancora tanti. Perché, precisiamo una cosa, se in questa storia di violenza non fossimo costretti a scrivere la parola 'ndrangheta, probabilmente l'avremmo potuta raccontare prima e magari con un finale diverso. Ma nel profondo sud, a Melito Porto Salvo, nel punto in cui la Calabria è più vicina all'Africa, se una ragazzina di 13 anni viene ripetutamente violentata sotto gli occhi di tutti, nessuno parla per rispetto o per paura del clan Iamonte, attualmente retto da Remingo, figlio dell'ormai defunto Natale Iamonte, mammasantissima della Locride negli anni di fuoco. 

Giovanni Iamonte, secondogenito del capo cosca Remingo, è infatti l'antagonista di questa triste vicenda.

Giovanni rappresenta il volto sporco della Calabria, quella ossequiosa e prepotente, che detta regole e leggi a masse incapaci di reagire, ottenendo la copertura di un'intera cittadina e la complicità di altri otto ragazzi, che stuprano la sua "fidanzata" a turno o in gruppo. Anche i preti, se interpellati, sono costretti a difendere gli stupratori e le famiglie, invocando silenzio e perdono. Ancora silenzio, dopo quello mantenuto nella cittadina per due anni. 

Le indagini rivelano che a Melito tutti sapevano, anche la madre, che, in linea con la politica omertosa del luogo, le aveva consigliato di smettere di dire quelle cose. Forse perché aveva ritenuto che il giudizio della gente fosse più importante della salute e della serenità di sua figlia o forse perché temeva di perdere il posto di lavoro nella ditta riconducibile proprio a Giovanni Iamonte.

Perché qui la 'ndrangheta spesso si sostituisce allo Stato e ribellarsi significherebbe, tra le altre cose, anche morire di fame. Neanche il padre, informato dalla moglie, si era deciso a denunciare. Provò invece a chiedere l'intercessione del boss, peraltro suo parente.

Potremmo finirla qui e dire semplicemente che sono cose esistite da sempre, a cui forse saremo costretti ad assistere ancora tante e tante volte, e che alla fine qualche coraggioso è rimasto e ci ha pure messo la faccia partecipando alla fiaccolata. Ma per un calabrese onesto, uno di quelli che paga tutti i giorni le conseguenze della prepotenza mafiosa, è davvero difficile leggere certi commenti dei melitesi sulla vicenda senza doversi vergognare almeno un po'.