Molto è stato detto su quei 55 giorni che separano il 16 marzo 1978, quando l’auto del presidente della Democrazia Cristiana, onorevole Aldo Moro, veniva speronata in via Fani, da un commando delle Brigate Rosse, e il 9 maggio, giorno del ritrovamento del suo corpo.
Il gruppo di fuoco uccise gli uomini della sua scorta e rapì il grande statista e professore, per cominciare un lungo e intricato gioco dell’oca, fatto di sotterfugi, spostamenti, proclami, processi popolari, sentenze e alla fine persino una condanna a morte.
La strategia della tensione era giunta a una resa dei conti con lo Stato; perciò era necessario alzare il tiro, in altre parole costringere le istituzioni del potere a trattare definitivamente con il potere popolare. La soluzione per i “rivoluzionari” sarebbe stata quella di rapire un simbolo del potere, per costringere il Governo a trattare la liberazione di alcuni “compagni” detenuti. Perciò perché non puntare su di un “cavallo di razza”? Un parlamentare importante e stimato, cinque volte presidente del Consiglio, a cui è legato l’accordo con il PCI e il tentativo di unire le forse politiche di entrambi gli schieramenti, contro il terrorismo?
I giorni che segnarono una nazione
Pensare che fra tutti i politici di quell’epoca, Moro era uno dei più strenui sostenitori della necessità di recuperare e reinserire chi ha sbagliato; uno dei pochi che non credeva nel potere correttivo di punizioni drastiche come l’ergastolo o il manicomio criminale.
Eppure in quei 55 giorni il tempo sembra essersi sospeso in un limbo: tutto procedeva a ritmi più lenti e una certa attenzione ai dettagli, dilagava sagacemente nel tessuto sociale e culturale di un'Italia reduce da una stagione di riforme e stragi perfettamente pilotate; ignara di ciò che sarebbe accaduto più tardi a Bologna e nei cieli di Ustica. In quei giorni tutto sembrava scorrere, con un evidente senso di smarrimento, eppure il Paese incominciò a cambiare davvero.
Mentre le forze dell’ordine giravano in lungo e in largo alla ricerca del covo dei misteri, da qualche ufficio segreto in centro, si tracciava la cerchia delle collaborazioni eccellenti, utili a ritrovarlo, passando dalla Cia alla Banda della Magliana, come se nulla fosse; peccato che il presidente, al rientro dall’incontro con Henry Kissinger, negli Stati Uniti, affermò in più occasioni di esserne uscito preoccupato. Proprio in quel periodo un neurologo direttore di un manicomio, Franco Basaglia introduceva una svolta nella disciplina psichiatrica italiana, ispirando una legge che chiudeva per sempre, una delle pagine più infami e crudeli della storia italiana. Il legame fra questi due eventi non è casuale, perché se da una parte lo Stato prendeva tempo, chiudendosi sempre di più nelle proprie posizioni dominanti, verso Moro e verso la società, la medicina apriva le porte a un vero confronto fra il malato e la comunità.
Nel frattempo in un paesino della Sicilia, in provincia di Palermo, Cinisi un giovane militante di sinistra, assieme a un gruppo di amici, realizzava una piccola e colorata rivoluzione. Si chiamava Peppino Impastato e dai microfoni di una della molte radio libere, nate in quei tempi, portava la sua lotta alla mafia, con il sorriso, l’arte, la cultura e il gusto sottile di prendere in giro i costumi e gli atteggiamenti che legavano i singoli, alla “onorata società”. Aldo Moro non conobbe mai Peppino Impastato e neanche Franco Basaglia; ma queste storie non solo incrociano il loro vissuto, ma hanno influito sulla realtà postuma a loro. Aldo Moro, in qualità di professore di Diritto e Procedura penale, era solito portare “in gita” i suoi studenti, in alcuni penitenziari e persino ospedali psichiatrici, non solo per permettere ai ragazzi di fare esperienza sul campo, ma soprattutto per metterli nella condizione di conoscere ciò che i libri e il contesto, spesso non fanno vedere.
In quei giorni anche Peppino Impastato, continuava la sua rivoluzione colorata, a pochi passi dalla casa del boss Badalamenti, coltivando un’idea di libertà basata sulla virtù e sul coraggio di essere umano, anche con la paura. Una paura che li ha uniti, in quel 9 maggio 1978, dove a poche ore di distanza, entrambi venivano uccisi in modo barbaro e spietato.
Dentro quella Renault 4 parcheggiata in via Caetani, vicino alla sede del PCI, c’è il corpo inerme di un paese che non esiste più; un paese che deve ricostituirsi e non riuscirà più a prendere seriamente in mano, il valore e la responsabilità di guidare e farsi guidare. Nello stesso tempo a Cinisi, quel corpo fatto a pezzi con il tritolo, lascia le sue tracce ovunque; sulle famiglie, sugli amici, sul movimento, sul consueto depistaggio delle forze dell’ordine colluse, segnando in modo indelebile la dura realtà di chi ha pagato con la vita, la sua voglia di libertà.
Se noi oggi siamo qui a ricordare questi personaggi, non è solo perché è un dovere morale; bensì il contrario. Moro, Impastato e Basaglia ci hanno insegnato prima tutto che non esiste un dovere morale, ma un valore morale, che permette a tutti gli uomini e donne di alzare lo sguardo e guardare spontaneamente l’orizzonte, senza pensare a chi sta puntando il dito. È lecito anche domandarsi se fra 40 anni, qualcuno degli attuali rappresentanti sarà ricordato con tanto fervore.
Probabilmente è lecito mettersi con comodo e riascoltare un vecchio discorso di Moro o Basaglia e confrontare un discorso dei giorni nostri. In quel confronto vi è la spiegazione del perché la società non è più la stessa.
Per ricordare un uomo semplice, anche se autorevole come Moro, bisogna tornare a parlare un linguaggio comprensibile da tutti; ornato da un certo stile lessicale, ma soprattutto sincero, perché gli occhi di Aldo Moro erano aperti, limpidi e diretti. Dov’è finito quel tipo di sguardo?