Barack Obama e Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, si incontreranno domani in Cina, in occasione di un vertice internazionale a cui prenderanno parte anche i rappresentanti dei paesi del G20. Ma l’incontro rappresenterà soprattutto una preziosa occasione di confronto tra l’amministrazione turca e quella americana, le cui relazioni, nelle ultime settimane, sono state progressivamente guastate dagli ultimi sviluppi della guerra in Siria e dalla crescente incertezza dimostrata dagli USA nel trattare le questioni mediorientali.

A poco più di un mese dal fallito colpo di stato in Turchia dello scorso 15 luglio, nelle scorse settimane l’esercito turco ha sferrato un’offensiva militare contro la città siriana di Jarabulus, un avamposto controllato dallo Stato Islamico situato a pochi chilometri dal confine con la Turchia. In un primo momento gli Stati Uniti, attraverso il vicepresidente Joe Biden – che si era recato in visita in Turchia lo scorso 24 luglio – avevano manifestato il proprio assenso all’attacco turco, per poi tornare sui propri passi solamente qualche giorno dopo, quando i militari di Erdogan avevano iniziato ad attaccare – oltre all’Isis - anche le formazioni curde dell’YPG (alleati di Washington e da sempre in prima linea nella guerra allo Stato Islamico).

L’operazione militare turca aveva lo scopo dichiarato di sradicare i miliziani dell’Isis dai territori immediatamente adiacenti al confine, ma il vero obiettivo di Erdogan e del suo esercito era rappresentato dalla neutralizzazione della continuità territoriale a cui avrebbero dato vita i curdi nel caso in cui fossero riusciti ad impadronirsi di Jarabulus. La prospettiva di avere uno stato curdo al proprio confine meridionale deve aver spinto Erdogan verso un’azione decisa, verso un’offensiva militare senza precedenti per un paese NATO impegnato contro lo Stato Islamico in Siria. Ecco spiegata la prima ambiguità: curdi e turchi si stanno facendo la guerra, ma gli Stati Uniti sono alleati di entrambi.

Per porre fine ad ogni incertezza, nell’incontro di domani sarà assolutamente necessario che Turchia e Stati Uniti tentino di sbrogliare i numerosi nodi che sembrano avviluppare le strategie politiche e militari di entrambi i paesi. Un compito reso ancora più complicato dall’ambiguità che circonda la figura di Fethullah Gülen, un predicatore turco ritenuto da molti il vero ideatore del golpe dello scorso luglio. Gülen vive in Pennsylvania dal 1999, e il 23 agosto Erdogan aveva richiesto agli Stati Uniti la sua estradizione. Il vicepresidente Joe Biden aveva risposto picche, sostenendo che l’amministrazione americana non possiede l’autorizzazione di estradare qualcuno, e che tale potere è di esclusiva competenza dei tribunali.

La strategia americana in Medio Oriente si è dimostrata incerta, fallimentare, ed ha consentito alla Russia di Putin di ritagliarsi un ruolo determinante nella complicata partita a scacchi rappresentata dal conflitto siriano. Barack Obama lascerà al suo successore un’eredità pesante, pesantissima, ma nell’incontro di domani avrà una rara occasione di rimediare agli errori del passato promuovendo un accordo di massima tra curdi e turchi, una sorta di patto trilaterale che consenta agli Stati Uniti di innervare la propria strategia in Medio Oriente.