I recenti attacchiordinati dal regime di Bashar al-Assad contro i curdi nel nord della Siria hanno avuto il plauso di Ankara. C'era da aspettarselo, nonostate il rais siriano sia considerato uno storico nemico dalla Turchia il cui governo ha apertamente appoggiato la rivoluzione e tutte le fazioni ribelli, comprese quelle in odore di jihad. Ma in una scala di problemi considerati prioritari da Recep Erdogan, quello curdo è al primo posto. "Damasco inizia a vedere i curdi come una minaccia - sono state le dichiarazioni del primo ministro turco, Binali Yildrim - e da parte nostra saremo molto più attivi in Siria nei prossimi messi per impedire una divisione del Paese su basi etniche".

In altre parole, la Turchia si opporrà strenuamente al disegno dell'Ygp di creare nel nord della Siria il primo Stato curdo indipendente. Cambia anche la posizione di Ankara relativa ad Assad al quale viene riconosciuta l'attuale presidenza in quella che viene considerata una fase di transizione. "Ma non avrà un ruolo nel futuro del Paese", ha sottolineato il premier.

Cambia la posizione sul regime di Assad?

Su quest'ultimo punto, una delle divergenze sulle questioni internazionali a cui accennava Vladimir Putin dopo aver incontrato Erdogan a San Pietroburgo, la posizione di Ankara potrebbe essere tutt'altro che irremovibile specie se gli viene offerta su un piatto d'argento la testa dell'Ygp che il governo turco considera "l'ala armata dei terroristi del PKK".

E dunque i curdi, popolo secolarmente diviso ed in cerca di una nazione, sono oggi il pretesto della Russia per rafforzare il regime amico di Damasco agli occhi della Turchia e costruire un'alleanza di comodo tra un Paese sunnita e l'Iran sciita le cui posizioni di contrasto alla causa curda sono storicamente note.

Gli Stati Uniti si muovono con prudenza

Gli Stati Uniti non stanno a guardare, non hanno intenzione di perdere un vecchio e prezioso alleato in Medio Oriente, anche se i rapporti tra Ankara e Washington sono sono ai minimi storici. Il nodo più intricato sembra legato alle sorti di Fethullah Gulen, in autoesilio in Pennsylvania.

Erdogan lo accusa di essere la mente del tentato golpe ai danni del suo governo ed ha chiesto alla Casa Bianca l'estradizione dell'ex imam ma da Washington, finora, la risposta è stata negativa. Di questa e di altre questioni si discuterà il prossimo 24 agosto, quando il vice presidente Joe Biden sarà in visita in Turchia. Sembra la contromossa statunitense al vertice Putin-Erdogan ma, in attesa di conoscerne l'esito, il Pentagono ha ordinato il trasferimento delle venti testate nucleari che si trovavano in territorio turco dalla base NATO di Incirlik a quella di Deveselu, in Romania. In questo modo l'amministrazione Obama dimostra disponibilità al dialogo ma, di certo, non ha intenzione di subire passivamente i "diktat" di Erdogan.

Il fallimento della politica europea

Tra gli attori di questa vicenda che gira intorno al Paese eurasiatico, chi svolge un ruolo da comprimario è, invece, l'Unione Europea. I rapporti tra Bruxelles ed Ankara sono tesi ma Erdogan, forte dell'accordo sui flussi migratori, detiene una posizione di indubbio vantaggio. L'UE ha condannato il "repulist" attuato dal presidente turco dopo il fallito golpe, un atto semplicemente formale. L'Europa sembra non aver compreso che quella in atto ormai da anni in Medio Oriente è una partita fondamentale per i futuri equilibri internazionali o, probabilmente, si rende conto di avere poche carte da giocare. La strategia politica non è chiara, probabilmente Bruxelles finirà per allinearsi a quelle che saranno le decisioni statunitensi.

La strategia mediatica, al contrario, è fin troppo evidente: quella di distogliere la gente dalle vere priorità e sbattere in prima pagina infiniti pretesti, come presunti valori culturali "intaccati" dai burkini delle donne musulmane in spiaggia. Basta questo ad illustrare quanto sia diventata fragile e decadente quella che un tempo era la culla della civiltà.