Il 10 aprile 1991 il traghetto Moby Prince era appena salpato dal porto di Livorno quando entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, ancorata in rada. Si scatenò un incendio violentissimo che causò 140 morti. Tutti i passeggeri del Moby Prince, tranne il mozzo Alessio Bertrand, morirono.

140 morti. La più grande strage della Marina civile italiana in tempi di pace.

La più grande tragedia sul lavoro nella storia della nostra Repubblica (65 membri dell'equipaggio persero la vita). "140 morti nessun colpevole", così recita lo slogan stampato sulle magliette rosse dell'associazione 140, che raggruppa alcuni dei familiari delle vittime, ancora oggi impegnata nella lotta per la ricerca della verità.

Perché di verità ancora oggi, dopo 25 anni, non se ne vede. Un sacco di misteri oscurano la vicenda: una strana nebbia che copriva solo la petroliera e che non era stata vista dalla plancia del Moby; la presenza di alcune navi militarizzate statunitensi che movimentavano armamenti, forse anche durante la notte del 10 aprile; un peschereccio impegnato nel traffico internazionale di armi che quella notte sarebbe dovuto essere fermo in porto, ma che forse invece era in movimento; una cisterna della petroliera, la n.6, trovata aperta e con una manichetta bruciacchiata; almeno un elicottero che sorvolava la zona della collisione; il ritrovamento nel locale eliche di prua del traghetto di esplosivo di tipo militare.

Ma anche manomissioni e sabotaggi a bordo del relitto e sparizioni di documenti e relazioni durante il processo nel tentativo di allontanare la verità.

Un mistero più di tutti getta ombra sulla tragedia: i soccorsi. Ed è per questo che la settimana scorsa è stato ascoltato l'Ammiraglio Sergio Albanese, comandante della Capitaneria di porto di Livorno all'epoca dei fatti. Perché resta inspiegabile il ritardo con cui i soccorsi hanno individuato il traghetto che vagava a poche miglia dal porto. E resta inspiegabile anche che nessuno abbia tentato di salvare le persone a bordo né abbia tentato di spegnere il rogo del traghetto.

La sentenza del Tribunale di Livorno del 31 ottobre 1997 ha assolto i due imputati della Capitaneria perché mancherebbe il nesso di causalità fra il ritardo dei soccorsi e la morte delle 140 persone del traghetto.

Non c'è nesso perché la morte a bordo fu molto rapida. I passeggeri del Moby Prince possono essere stati vivi per mezzo'ora. Non di più. Così ha stabilito il pool di periti del Pm durante il processo. Neanche i soccorsi più rapidi ed efficienti avrebbero potuto evitare o limitare la tragedia. Infatti l'Ammiraglio Albanese ha dichiarato di essere arrivato al porto di Livorno poco dopo le 23, cioè, perizia alla mano, 10 minuti dopo la morte dei passeggeri.

Nella stessa sentenza di assoluzione del 1997, però, si può leggere anche una chiara condanna per il mancato coordinamento dei soccorsi. Lo stesso si può leggere nella sentenza della terza sezione della Corte d'Appello di Firenze del 5 febbraio 1999.

La tesi della morte rapida è stata aspramente combattuta dai familiari delle vittime, che si sono serviti di altre perizie, come quella degli esperti di medicina legale Angelo Fiori e Marcello Chiarotti. Questa perizia, che ha utilizzato in particolar modo le analisi sui tassi di carbossiemoglobina nel sangue delle vittime, porta a una conclusione completamente opposta. La morte dei passeggeri non fu rapida, e certamente non omogenea. In questo caso tutt'altra rilevanza avrebbe la cattiva gestione dei soccorsi.

La delibera istitutiva della Commissione di inchiesta si pone, per primo a sottolinearne l'importanza, l'obiettivo di chiarire quali furono i tempi di sopravvivenza effettivi delle 140 persone a bordo del traghetto, servendosi dei dati tossicologici raccolti nei giorni successivi la tragedia e delle perizie analizzate nella fase dibattimentale del processo.

Scoprire la reale entità della sopravvivenza a bordo è fondamentale per la ricostruzione della verità dopo venticinque anni di silenzio.