Circa due anni fa, Mark Zuckerberg comprava 700 acri di terra alle Hawaii alla modica cifra di 100 milioni di dollari: secondo Forbes, un “santuario familiare isolato dal mondo”, davanti alla spiaggia. Ecco come Mark stesso raccontava la cosa lo scorso 28 dicembre:

(“Qualche anno fa, io e Priscilla abbiamo visitato Kauai e ci siamo innamorati della comunità e delle montagne verdeggianti.

Siamo tornati più volte con la famiglia e gli amici, e finalmente abbiamo deciso di mettere radici e unirci alla gente di qui. Abbiamo comprato la terra e siamo decisi a preservarne la sua naturale bellezza. E’ piena di animali selvatici come maiali, tartarughe, rare specie di uccelli e foche (...) ”).

Un paradiso non proprio isolato

Tutto splendidamente bucolico, se non fosse che tanto isolato, quel paradiso alla fine non era: circa una dozzina di piccoli lotti nella proprietà di Zuckerberg risalgono infatti ad alcune famiglie “kamaaina” con diritti di passaggio in quella proprietà altrimenti privata.

E’ per questo che il 30 dicembre 2016, pochi giorni dopo il post su Facebook, gli avvocati del tycoon (in realtà di alcune sue società) depositavano alla corte di Kauai otto fascicoli con cui citavano in giudizio centinaia di hawaiani.

La causa

L’azione si chiama “quiet title lawsuit”, e sulle prime ha messo tutti sulla difensiva: secondo i nativi quel “neocolonialista” di Zuckerberg vorrebbe privarli delle terre possedute da generazioni, spingendoli a venderle all’asta in cambio di un mero indennizzo. A questo può portare, infatti, questo tipo di cause, l’abuso delle quali rischia di recidere la connessione ancestrale delle famiglie kamaaina alla loro terra. Ma le cose stanno veramente così?

I nativi

Tra le vittime di quella che è subito sembrata un’aggressione c’è gente come Oma, una donna hawaiana senza cognome (come da tradizione), forse la prima proprietaria di un appezzamento. Ma il fascicolo più complicato riguarda i circa 300 discendenti di un bracciante della canna da zucchero, di nome Manuel Rapozo, immigrato portoghese che nel 1894 acquistò un po' di terra e la lasciò ai discendenti. Chissà cosa direbbe del suo nipote Carlos Andrade, un professore in pensione che affianca Zuckerberg nella causa. Carlos ha scritto una lettera a tutti i cugini per spiegare che è il momento di liberarsi di una terra che col tempo frutterà sempre meno e che molti di loro neanche sapevano di avere.

La difesa di Mark

Naturalmente Zuckerberg si difende e dice che non vuole espropriare nè derubare nessuno: il problema, ha provato a spiegare, è una legge hawaiana del 1850, il Kuleana Act: un provvedimento che fece sbarcare alle Hawaii il diritto, se non il concetto, di proprietà privata, fino ad allora sconosciuto. E' per questo che la terra alle Hawaii viene spesso tramandata per generazioni senza atti né documentazione formali: gli hawaiani nativi non sono avvezzi a questi meccanismi ed è per questo che le quiet title action sono molto comuni sulle isole (una vicenda simile è nel film Paradiso Amaro, di Alexander Paine, dove un George Clooney nelle vesti del nativo hawaiano deve decidere le sorti di un pezzo di terra ereditato dai suoi avi).

Tecnicamente, infatti, l’azione serve anche a “quietare le pretese su un titolo”, cioè a chiarire per sempre a chi appartiene una proprietà senza che nessuno possa più dirti più niente dopo che la compri. In Italia abbiamo qualcosa di simile, ed è l’azione negatoria.

Insomma, come ha anche specificato Keoni Shultz, socia dello studio legale che rappresenta Zuckerberg, la causa servirebbe soltanto per identificare tutti questi potenziali co-proprietari, determinare la proprietà e assicurarsi che, se ci sono, ognuno riceva un adeguato indennizzo per la propria quota.

Molto rumore per nulla, quindi? Forse, ma non si è mai troppo prudenti quando a farti causa c'è il quinto uomo più ricco del mondo, per un pezzo di terra tra i più belli sul pianeta e che forse neanche sapevi di avere.