Ancora oggi, dopo tutti questi anni, Auschwitz è un luogo dove le parole non aiutano a dimenticare e le lacrime non sono una consolazione. Gli edifici vuoti, gli spazi desolati parlano da sé. Il concetto di auschwitz, il suo culto, hanno superato le aspettative di qualsiasi essere umano in grado di provare emozioni e sentimenti. La trama è molto semplice, non come nei romanzi gialli o quelli a scopo didattico; la trama, qui, è uno slogan: l’eliminazione di persone.
Non ci si rende conto affatto, e nessuno se ne rendeva conto nemmeno allora. Chi l’avrebbe mai detto… salire su quel treno, proprio quello che portava ad Auschwitz. Immaginiamo che Auschwitz sia l’orizzonte; la gente veniva portata qui per vedere l’ultimo tramonto. Ma quello non lo hanno visto mai. Oggi è tutto diverso. Siamo cambiati, siete cambiati. Auschwitz è lo stesso luogo, cintato dal medesimo filo spinato. È successo qui, allora. Qualcuno si fa un selfie, figo no? Qualcun altro vuole portarsi a casa un pezzo di qualcosa. Fotografano gli oggetti, le immagini, i volti. Il luogo, gli edifici, ogni cosa è diventata meta turistica per le masse di tutto il mondo.
Cosa significa, dunque, Auschwitz oggi per l’umanità?
Quel che è rimasto, ciò che gli uomini, uomini come noi, sono stati capaci di fare quando viene impartito loro un ordine o quando si sottomettono agli ideali di qualcun altro. In fondo, tutti talora formuliamo idee sbagliate. Il dramma è che a volte queste idee invogliano alcuni individui a fare cose terribili, tanto che per qualcuno il genocidio, il muro della morte, la supremazia della razza possono diventare lo scopo di intere nazioni. Persino un ideale da perseguire e realizzare con etica, diligenza e amore: lo sterminio come filosofia. I barbari non hanno ancora visto tutto. Altre generazioni.
Questa è stata una guerra diversa. Ha preso un’altra forma.
Il pittore ha usato colori diversi e pennelli umani per disegnare la propria opera. Opera compiuta. Il risultato: Auschwitz. La prima cosa che si fa oggi ad Auschwitz è essere sottoposti al controllo col metal detector. Questa ispezione a confronto con quella subita dalle persone che venivano trasportate qui allora è inimmaginabile per noi. Neanche loro non sapevano a cosa sarebbero andati incontro, attirati qui con promesse e per mezzo dell’inganno. Perché l’inganno è stato alla base dello sterminio di massa. Pensateci: l’inganno di persone innocenti. Al loro posto, forse, ci avremmo creduto anche noi. Del resto si parlava di emigrazione. Così le persone partivano portandosi appresso pentole e attrezzi, cariche di valigie con i nomi scritti a mano, illusi di essere semplicemente “trasferite” in terre promesse.
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Terre dove avrebbero lavorato e mangiato come a casa, dove qualcuno avrebbe acceso la radio al mattino per ascoltare il notiziario ed i bambini avrebbero giocato nel cortile mentre la mamma sfornava il pane con un occhio attento ai suoi piccoli. Invece qui i bambini spingevano carretti da un blocco all’altro, nella speranza di scorgere da qualche parte i loro genitori. Oppure trainavano barelle sulle quali giaceva il corpo del proprio padre o della propria madre, quella che avrebbe dovuto sfornare il pane. Perché è un bisogno vitale che tutti gli esseri umani condividono: cercare la propria famiglia per riceverne affetto e calore. Non quello della batteria dello smartphone o quello virtuale di un “mi piace”.
Ormai non si capisce neanche più cosa sia un sentimento vero! I bambini qui, dopo quel poco, e questo poco rappresentava una fortuna, se solo riuscivano a vedere i volti dei propri genitori erano già felici.
Quei volti stravolti dalla tragedia, dalla sofferenza, dal lavoro “libero” che rendeva schiavi e liberi, sì, ma solo da morti. Cos’era il futuro ad Auschwitz? Soltanto una catena di montaggio, o meglio di smontaggio, di esseri umani fatti a pezzi, lentamente, in modo mirato e senza parole. Qui contavano le azioni e gli ordini. I volti delle persone si trasformavano presto in cenere e concime. Le tracce cartacee venivano cancellate all’arrivo dei deportati. A volte, quando le persone scendevano dai vagoni, le vite erano estratte come da un mazzo di carte.
E solo il caso lasciava vivere alcuni almeno quel poco tempo prezioso, un'orrore per loro, per noi, per tutti quanti, perfino per quelli che vengono qui per farsi un selfie o per rubare un pezzo di mattone.Quei capelli, non si possono fotografare. Dovrebbe essere vietato qualsiasi scatto qui.
Non si può rimanere insensibili e freddi quando ci si trova di fronte a tragedie come queste, realmente accadute. Ama il prossimo tuo come te stesso. Questo ci dicono i libri sacri. Eppure quel mucchio di capelli. Più di 40.000 mila donne ammazzate. Ogni ciocca pesa circa 50 grammi. Niente. La vita di una deportata non pesava nulla. Quando vedete tutto questo in una stanza dovreste svenire, dovreste raggelare dalla paura e dall’orrore innanzi a ciò che ha fatto l’uomo, già l’uomo … l’animale “evoluto” in grado di ragionare in tempi brevi e a svantaggio dell’umanità intera.
Non volevano perdere tempo, le cosiddette “persone” che pianificano così le loro giornate di lavoro utile al Reich. Lavoro che produceva calze e calzini per i marinai a bordo dei sommergibili da guerra. Sacchi di capelli trasportati nelle fabbriche per essere trasformati da altre “persone” che erano perfettamente a conoscenza della provenienza di quella, come diciamo oggi senza fare molta fatica, MATERIA PRIMA (K.L.A).
Le parole di Auschwitz parlano con voci che gridano nel buio e si rivolgono a noi
Ogni oggetto, ogni cosa parla di esseri umani. Le fotografie sui muri. Le fotografie nelle fotografie. Famiglie intere sterminate in meno di un’ora. Vite e generazioni spezzate per sempre. Niente più radici, niente più matrimoni, niente bambini, niente funerali e condoglianze.
Questi non sono omaggi al ricordo di un’immane tragedia. Non è possibile ormai lavarsi di dosso questa macchia, l’onta di una disumanità che spicca come un indelebile tatuaggio sul volto di tutto il genere umano. Questi sono momenti indescrivibili ed inaccettabili, così assurdi da sembrare quasi inverosimili.E non dimentichiamo l’appello, che a volte durava 19 ore, quasi 24!
Tutto quello che veniva fatto ad Auschwitz, ricordiamolo, era studiato e progettato per uccidere. Un’abile, crudele strategia, simile ad una partita di scacchi, pensata per far sì che i deportati morissero, sfiniti e terrorizzati, senza sapere perché o che cosa sarebbe loro successo. Ma soprattutto, da soli. Soli ad attendere l’appello per 19 ore, in piedi, al freddo, in cortile.
Dopo aver lavorato 20 ore, dopo aver mangiato quasi niente, anche quello accuratamente pianificato così che chi era debole fisicamente venisse abbandonato al proprio destino e chi riusciva, invece, a reggere, malgrado la penuria di cibo, fosse sfruttato fino a morire, un po’ più tardi, mentre ancora stava lavorando. Questo era l’appello del primo giorno di scuola che i genitori sognano per i propri bambini.
Questo era l’appello del Reich. Le foto in cui le donne corrono nude. Si possono notare nelle fotografie con che intensità s’affrettano verso le docce. Sì, cari lettori, avete capito bene: verso le docce. Non per lavarsi, però, ma per la sete. Donne che non hanno bevuto nemmeno un sorso d’acqua per tutto il giorno.
Che dire? Questo è il “talento”, questo il “genio” dell’uomo che pianifica il male in un giorno qualunque: far correre le donne nude verso la morte. Provate solo a immaginarlo? Loro no. Ma è successo, ed è anche stato fatto con perfetta perizia, quasi a cappella, come in un’orchestra che debba suonare in assoluta armonia. Il comandante, la mente che dirigeva questa fabbrica di morte, abitava lì vicino, proprio accanto, con tutta la sua famiglia.
Leggeva i giornali, baciava i bambini prima di andare al lavoro. Probabilmente, dopo aver cenato abbondantemente ed essersi bevuto un buon digestivo, faceva l'amore con la sua bella moglie, ignara di tutto o fiera dell’importanza del “lavoro” svolto dal proprio marito per la patria.
Almeno lui, non c’è dubbio, del suo lavoro è stato ringraziato, perfino premiato. Che importa se poi, dopo la fine della guerra, è stato riportato là dove aveva compiuto gli orrori più indicibili per venire impiccato. La villa è ancora lì, memoria vivente della follia, con gli alberi che crescono tutti intorno e i fiori che sbocciano in primavera. Nell’aria si respira la vita di ogni uomo e donna, ogni bambino e bambina che sono stati spenti laggiù. Capello per capello, dente per dente, occhio per occhio, unghia per unghia. Sentimento per sentimento. Lacrima dopo lacrima. Vita senza vita. Bambino senza padre. Bambino senza madre. Bambino senza un giocattolo. Bambino senza un bambino. Vita senza vita.
Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria, non dimentichiamoci...