La guerra non è solo sangue e distruzione. Non per tutti, per lo meno. La ricerca condotta dal Sipri (Stockholm international peace research institute) ha analizzato i dati raccolti nell’ultimo anno, evidenziando il triste primato detenuto dall’Italia piazzatasi nona nella classifica dei grandi esportatori d’armi nel mondo.
La ricerca non riesce a delineare con precisione i confini entro i quali sono orientati gli export di ciascun Paese, anche a causa dei traffici illegali che spesso tratteggiano una cornice decisamente più estesa rispetto alle previsioni analitiche.
Emerge tuttavia un impegno costante nel rifornimento d’armi in Arabia Saudita, potenza impegnata da anni nella sanguinosa guerra contro lo Yemen. L’Arabia segna un caso emblematico, rappresentando un coacervo di forze – con l’appoggio di Qatar ed Emirati - alimentate dalla fame di denaro di una nazione che, in questa guerra, ha indirettamente provocato 4500 morti e più di 8000 feriti dal 2015, come descrivono i rapporti annuali di Amnesty International.
Una tragedia che mette in luce un dato disumano, un export di sangue e terrore che non conosce crisi, ma continua a venerare un’unica grande divinità, quel Dio denaro che fa cadere al suo cospetto le vittime inermi di una guerra mascherata all’ombra di religioni o ideologie contrastanti, tutte inserite nella cerchia maggiore dell’economia e del profitto, dipingendo un quadro degno della bolgia infernale dantesca.
Anche la legge italiana risulta trascinata all’interno di questo vortice: mentre la legge 9 luglio 1990 n. 185 sancisce il divieto d’esportazione di armi e macchinari bellici verso i paesi impegnati in conflitti armati, verso i paesi la cui politica sia in conflitto con i valori dell’art 11 della Costituzione e nei confronti di coloro i quali sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in tema di diritti umani, l’Italia continua a bypassare queste norme e il complesso sistema di emendamenti che sono stati posti al fine di evitare un export dannoso.
Nel frattempo lo Stato finanzia i regimi aumentando il fatturato e scalando i posti di una classifica che sancisce l’influenza degli Europei e degli U.S.A.
in un contesto gerarchizzato in cui la dialettica servo-padrone continua ad invertire le posizioni di vittime e carnefice: risuonano alti i principi cardine delle rivoluzioni liberali ai meeting internazionali, ottime passerelle per esponenti di una politica ripulitasi in pubblico dalle scorie guerrafondaie, leader della perversa trasmissione sottobanco d’armi che seminano morte e distruzione in un Medio Oriente ormai alle corde.
Giustizia e giustiziabilità: la tutela di un diritto assente
Se da un lato si sprecano le critiche contro i regimi che violano i trattati e le convenzioni internazionali in materia di diritti umani, dall’altro emerge una continua trasmissione d’armi e munizioni che segnano un (non più di tanto) tacito consenso alle politiche criminali e omicide dei paesi in stato di guerra.
Il rapporto dell’Onu non manca di mostrare come in Yemen gran parte delle bombe finanziate dagli esportatori italiani finiscano contro bersagli civili, inerti ed inermi dinanzi ad una guerra combattuta per fini altri rispetto a quelli di facciata, una sorta di contenitore vuoto pronto ad accogliere ogni istanza distruttoria e rigorosamente sovversiva limitata e finanziata dalla cerchia dell’economia e del profitto, motore di una devastazione che non guarda in faccia il nemico occasionale, finendo spesso per guardarsi allo specchio.
Una cerchia che sancisce l’unità della differenza tra umano e disumano, trattando e alleandosi col migliore offerente anche a patto di far venir meno quell’humanitas che dovrebbe rappresentare l’unico terreno percorribile, lo spazio di unificazione delle diversità.
Ciò che emerge è invece un diritto che non trova una sua giustiziabilità, quella tutela che dovrebbe essere posta al centro d’ogni welfare state e che invece passa in secondo piano, scavalcata da una giustizia sommaria ottenuta con la calcolatrice: accade così che la logica di potenza determina l’assoggettamento dell’individuo alle politiche di dominazione, una trasformazione delle sorti di un’umanità in balia di una corrente che sotterra la memoria storica in cui lacrime e sangue fisico ed intellettuale hanno portato all’affermazione di un diritto attribuito alla persona.
La dignità dell’uomo barcolla in rapporto al prezzo di una bomba e l’umanità cade sotto i colpi dell’uomo. Sintomatico è il dato che evidenzia come nell’attentato terroristico del Bataclan, a Parigi, i 2/3 delle armi utilizzate fossero di produzione francese: le Nazioni cadono sotto i propri stessi colpi.
In questo contesto emerge l’ombra di un potenziale nemico interno abile nella speculazione sulle vite dei cittadini che dovrebbe difendere e, in misura nettamente maggiore, dei civili degli stati colpiti dalle armi esportate al migliore offerente. Le logiche di potere che si celano dietro gli aiuti umanitari elargiti a colpi di kalashnikov, segnano un regresso in direzione di un ordine gerarchizzato in cui una tacita oligarchia sposta l’ago della bilancia da un lato all’altro, facendo pendere milioni di vite dalla propria decisione senza sentirne il peso.
Mentre risuona alto l’eco di un mondo all’insegna della pace e della sicurezza, una vita senza armi è un’utopia inimmaginabile, una preghiera non recepita dall’unica grande divinità oggi venerata, caro vecchio dio danaro.