L'ultimo film di Steven Spielberg - il tanto atteso "The Post" - commuove per un tempo che sembra essere passato già senza retroattività. La vicenda è quella nota dei Pentagon Papers - i documenti top secret del Dipartimento di Stato Usa che presentarono uno studio approfondito sulle strategie e i rapporti tra il governo americano e il Vietnam tra il 1966 e il 1971 - anche se la sceneggiatura di Liz Hannah e Josh Singer è perfetta, così come la fotografia di Jasnusz Kaminski, i costumi di Ann Roth.
Kay Graham (Meryl Streep), è la proprietaria del "Washington Post", unica donna in un ambiente maschile. Il suo direttore Ben Bradlee (Tom Hanks) è un cane in gabbia in attesa del colpo di fortuna giornalistico che lo porti in alto. Il "Post" sta per essere quotato in Borsa e su Kay che ha ereditato dal marito l'azienda e si addensano le perplessità dei componenti, tutti maschi, del consiglio di amministrazione del giornale. Preoccupa soprattutto una clausola del contratto: eventi catastrofici nella prima settimana di quotazione borsistica possono determinare l'abbandono lecito dei sottoscrittori.
In tutto questo baillamme il "New York Times" pubblica i documenti del Pentagon papers: i dossier segreti che attestano che quasi tutti i presidenti della Repubblica USA erano a conoscenza delle sicura sconfitta degli States in Vietnam, guerra nel 1971 ancora in corso.
Il diritto di pubblicare
Si dà poi il caso che il "Times" venga bloccato da un giudice federale su imbeccata giuridica di Nixon e subisca un'ingiunzione a non pubblicare. Il "Post" dovrebbe festeggiare per un concorrente in difficoltà ma risulta subito chiaro che la battaglia è contro il primo emendamento della Costituzione americana. Per un'inchiesta di un suo giornalista "The Post" si trova ad avere dalla stessa fonte - un uomo dell'ex segretario di Stato di Lyndon Johnson, McNamara - i Papers.
Pubblicare o no? La domanda è sulla testa di Kay, donna e con amici conservatori. La decisione - "il diritto di pubblicare consiste nel farlo" - porta ad una battaglia politico-giudiziaria che sarà alla base di una fondamentale sentenza della Corte suprema americana e influenzerà la presidenza Nixon come prodromo di quello che sarà poi il "Watergate". La motivazione della sentenza letta coram populo nella redazione del "Post" suonerà come un inno alla libertà di stampa in un tempo in cui fare questo mestiere era come formare "la prima bozza della Storia". Nel nostro tempo, invece, fatto di stupide fake news internaute, il film di Spielberg ci appare come l'età dell'oro di quello che è stata la libertà di espressione e di libera stampa contro il potere.