La protesta degli avvocati contro la Cassa Forense inizialmente partita da Catania ha ormai raccolto oltre 20mila adesioni ed è destinata a dilagare in ogni angolo dei tribunali italiani: ciononostante la cassa forense sembra ancora non aver compreso la reale portata del malcontento.
Contributi o vessazioni?
La situazione ormai è diventata insostenibile. Ogni avvocato ha prestato un importante giuramento che così recita “Consapevole della dignità della professione forense e della sua funzione sociale, mi impegno ad osservare con lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia ed a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento”.
Parole che risuonano nel cuore di chi persegue un sogno di giustizia non solo per il cliente, ma anche per la società e soprattutto per sé stesso. Ma nonostante il grido disperato, specie dei più giovani, che ormai si sforzano di tener fede a quel giuramento, oggi giunge inaspettata una disdetta proprio da parte del presidente della Cassa Forense (raccolta dalla testata del CNF “Il Dubbio”). In un’intervista infatti il presidente Luciano Nunzio sminuisce la ribellione in atto e afferma testualmente “Non metto in discussione la buonafede di questi colleghi, spesso giovani e alle prese con difficoltà oggettive, ma devono conoscere meglio l'attività che svolge la Cassa.
Chi paga il minimo riceve più di quanto versa. Diamo aiuti per famiglia e salute".
La risposta della Cassa
La Cassa cerca di difendersi in maniera creativa circa le spese di gestione, ossia attraverso un paragone con gli amministratori degli enti pubblici: “Negli enti pubblici e nelle altre casse gli amministratori continuano a percepire emolumenti di gran lunga superiori”.
Invece per quanto riguarda il sistema contributivo il presidente così risponde: “Il nostro è un sistema solidaristico e va difeso. È di 2.800 euro il contributo soggettivo minimo, a cui si aggiunge il contributo integrativo pagato dai clienti, che costa molto di più agli avvocati con un reddito più elevato. La pensione minima sarà molto più di quanto si versa”.
Un ragionamento che non farebbe una grinza se non fosse per l’aspettativa di vita che è di circa 80 anni e per il fatto che dopo 35 anni di professione, quindi all’ età di circa 70 anni, ogni avvocato si trova ad aver versato contributi obbligatori per un totale di € 3.568,00 annui.
In verità ogni avvocato deve versa durante la carriera professionale circa 124.880 euro ai quali si aggiunge il contributo integrativo pagato dai clienti (il 4% sugli onorari). Considerando l’aspettativa di vita media che è di circa 80 anni (dati ufficiali) è facile calcolare che ogni avvocato dovrebbe aspettarsi almeno di recuperare quanto versato, ossia 1.040 euro al mese (12.488 euro l’anno). Invece ciò che spetterà a ciascun avvocato sarà una magra pensione di circa 400 euro mensili (calcolo eseguito tramite il simulatore presente sullo stesso sito della Cassa Forense.
La reazione degli avvocati
L’avv. Goffredo D'Antona, primo ad aver formato la petizione ha considerato offensiva la dichiarazione resa dal Presidente che invece di dare risposte agli avvocati in tumulto ha preferito farsi intervistare da un giornalista con “autocelebrative dichiarazioni”.
Stessa critica anche in merito all’atteggiamento irrispettoso tenuto dal presidente nei confronti dei giovani avvocati “accusati di ignoranza sulle questioni riguardanti la cassa”. Lo stesso D’Antona ha evidenziato che il problema, d’altro canto, è sentito e sostenuto anche dagli avvocati più anziani e con redditi più alti che considerano poco decorosi i compensi prospettati. Sembra proprio che ormai lo scontro sia inevitabile e presto dovranno essere presi provvedimenti visto che gli avvocati hanno già paventato la possibilità di non versare alcun contributo a partire dalla prima rata (delle 4) che cade al 28 febbraio 2017.
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