Tiene banco in questi giorni il dibattito sul caso Apple e in particolare se debba essere prioritario il diritto alla privacy rispetto a quello alla sicurezza. Un dibattito in cui sembra che chiunque dica la sua abbia la certezza di essere nel giusto, ma che in realtà ha dei risvolti molto più complessi di quanto si potrebbe pensare.
La posizione di Apple
Apple non concede all'FBI l'accesso all'iPhone di Syed Farook, autore di una strage in cui sono morte ben 14 persone, sostenendo che il diritto alla privacy sia prioritario.
Quello alla privacy è indubbiamente un diritto sacrosanto, ma è proprio vero che sia prioritario sempre e comunque? L'FBI non dovrebbe poter essere in grado di accedere anche a dati personali quando ve ne sia un più che giustificato motivo e per il bene della comunità?A prima vista la posizione di Tim Cook potrebbe dunque sembrare eccessivamente rigida.Quali motivazioni adduce? In primis, la sicurezza. Concedere all'FBI una "via di accesso" in nome della sicurezza potrebbe avere come effetto collaterale proprio un rischio per la stessa sicurezza, se tale possibilità finisse poi nelle mani sbagliate.
Forse questa è la motivazione più forte.
Ma c'è un'altra motivazione: se i dati possono essere in qualche modo resi accessibili, la clientela Apple avverte il proprio dispositivo come potenzialmente insicuro e ciò va a danno di un prodotto che fa della sicurezza uno dei propri punti di forza.
Le altre grandi aziende tecnologiche si schierano quasi in massa a fianco della Apple, la quale incassa, quasi inatteso, anche il sostegno dell'ONU, che vede nella richiesta dell'FBI un precedente pericoloso per la privacy degli utenti.
L'opinione pubblica è letteralmente spaccata in due
Al di là delle posizioni interessate e delle questioni di principio, questa vicenda fa sicuramente emergere un sentimento diffuso secondo il quale tutta la tecnologia, che oggi pervade sempre più il nostro mondo e che ogni giorno adoperiamo senza comprenderne appieno tutte le implicazioni, un po' ci spaventa.
La paura di essere spiati, osservati e intercettati è sempre presente ed è il prezzo che dobbiamo pagare in nome del progresso.
Talvolta tale paura induce anche comportamenti paradossali: è il caso ad esempio di chi non installa un antifurto satellitare per non rendere visibili i propri spostamenti e rischia di non ritrovare più l'auto in caso di furto. Se è sicuramente valida l'esortazione "male non fare, paura non avere", è anche pensiero comune che nel mondo di oggi, se si può, è sempre meglio evitare di ritrovarsi invischiati in situazioni spiacevoli da cui rischia di essere difficile uscire.
Ma non tutti la pensano così. Molti, nella consapevolezza di essere persone per bene e confidando nel buon operato delle istituzioni, auspicano che vengano utilizzati tutti gli strumenti a disposizione per individuare e perseguire i colpevoli, anche rinunciando a un po' della propria privacy.
E temono che, nel nome di una incondizionata tutela di questo diritto, si possa finire per proteggere ed agevolare terroristi e delinquenti.
Il caso Rosboch, di questi giorni, è proprio un esempio di come, tenendo sotto controllo le SIM di tutte le persone coinvolte nella vicenda, gli investigatori siano riusciti a delineare un quadro molto preciso degli eventi e ad inchiodare di fronte alle proprie responsabilità i presunti colpevoli della vicenda. Come avrebbe fatto il reparto investigativo di Torino a venire a capo del delitto se non fosse consentito l'utilizzo di un tale strumento di investigazione?
Viene da chiedersi, insomma, se, pur riconoscendo l'importanza della tutela della privacy, prese di posizione troppo rigide non possano mettere ancora più in difficoltà chi ha il compito di far rispettare le leggi, mantenere l'ordine pubblico e amministrare la giustizia e che già dispone di mezzi e risorse non sempre all'altezza.