I rapporti tra Trump e Xi Jinping, sono partiti male e non si sa come andranno avanti. La posta in gioco è troppo alta e gli interessi dei due paesi troppo contrapposti per sperare in una facile convivenza. Scontro commerciale, Taiwan e le tensioni nel mar Cinese meridionale, le note dolenti. La guerra commerciale è quasi inevitabile perché Trump ritiene che, dopo la troppa tolleranza concessa dai suoi predecessori, sia arrivato il momento di assumere una posizione più ferma per costringere la Cina a correggere i rapporti di interscambio, finora, tutti a vantaggio di Pechino.

Un passaggio dal “libero scambio” allo “scambio equo”. Anche perché l’attuale politica commerciale sta penalizzando severamente gli Stati Uniti sotto il profilo occupazionale.

Falchi o colombe?

Ma la Cina si trova nelle migliori condizioni per affrontare una guerra commerciale contro gli Stati Uniti? Probabilmente no. La stabilità interna non è delle migliori e con la crisi del settore minerario del carbone e dell'industria siderurgica, l'occupazione ha subito un duro contraccolpo. Quindi resta da vedere se Xi Jinping ascolterà le colombe, e adopererà il buon senso, oppure i falchi e rischierà una guerra reale. Alla quale, però, Trump è già preparato potendo contare anche sulle basi dislocate in Giappone e Corea del sud.

E si sta preparando anche diplomaticamente. Infatti, la ricerca di rapporti amichevoli con Putin, sembra un chiaro intento a tranquillizzare le relazioni con la Russia per potersi dedicare unicamente alla questione cinese. Un eventuale scontro militare tra Usa e Cina, però, preoccupa molto gli analisti internazionali perché la guerra tra due superpotenze potrebbe avere conseguenze inimmaginabili.

Wei Jingsheng, noto anche come il “Nelson Mandela della Cina”, esule negli Stati Uniti, è molto pessimista sull’evolversi delle tensioni tra la Casa Bianca e Pechino ma non ha dubbi sul risultato finale: la Cina sarà sconfitta con enormi ripercussioni interne sull’economia e la società.

A completare questo quadro fosco si aggiungono: la telefonata della leader di Taiwan Tsai Ying-wen a Trump, per congratularsi della sua vittoria elettorale e le isole contese del mar Cinese.

Da scogli a basi militari

Nel primo caso, Pechino non ha digerito la telefonata perché l’ha ritenuta una sorta di apertura diplomatica a Taiwan che considera una sua provincia e non uno stato autonomo. In effetti è dal 1972 che gli Stati Uniti hanno optato per la politica della “One China”, avviata da Nixon e ufficializzata nel 1979 da Carter che riconobbe Pechino come unico interlocutore di tutta la Cina, Taiwan compresa. Una gaffe diplomatica di Trump o una velata apertura alle richieste di indipendenza dell’ex isola di Formosa?

Infine, resta il conflitto più grave, quello del Mar Cinese sul quale Pechino ritiene di avere il 90 per cento della sovranità territoriale. Pretesa annullata dalla Corte Permanente di Arbitrato che gli ha negato i titoli storici necessari.

Intanto la Cina prosegue, nonostante i divieti, le sue manovre sulle isole artificiali. Scogli e secche trasformate in isole militarizzate. Basi strategiche con cannoni antiaerei, piste di atterraggio, radar e batterie antimissile per fronteggiare attacchi Cruise. Insomma, i cinesi considerano molto seriamente il rischio di un conflitto bellico nel Mar Cinese Meridionale e queste misure ne sono la prova certa.