La pellicola "Barriere" si avvita intorno a tre nodi tematici, che si incrociano e si sovrappongono con grande pregnanza. Primo fra tutti la questione razziale. Sembra proprio che il filone lanciato da "Django Unchained" e "12 Anni Schiavo", abbia portato ad una riscoperta della questione dei neri d’America con grande successo. Il protagonista, il burbero ma a suo modo affettuoso Troy Maxson, è un uomo profondamente segnato: il suo cuore sanguina ancora per quel sogno infranto di entrare nel baseball d’alto livello, carriera che gli è stata preclusa a causa del suo colore della pelle, nonostante in gioventù avesse del talento da vendere.
Eppure, al netto delle disillusioni, si nota un certo orgoglio per come è riuscito a portare avanti la sua vita: fra le tante discriminazioni alle quali ha dovuto assistere, è riuscito a compiere un salto nella sua professione, si è comprato una casa, e si rapporta al suo fraterno amico Bono con un "negro" che suona come un tratto di fiera distinzione.
Lasciatosi alle spalle una vita turbolenta, Troy crede di poter controllare a perfezione tutto e tutti, soprattutto i suoi figli, non senza ricredersi profondamente con il volgere delle vicende. L’idea stessa della barriera, che dà il titolo al film, allude ad un tentativo di isolare il microcosmo familiare dal mondo esterno, giudicato con chiaro disprezzo dal capofamiglia, come fonte di inutili distrazioni e covo di delusioni cocenti.
A pagare dazio al suo atteggiamento è soprattutto il secondogenito, il talentuoso Cory, con il quale il dissidio diverrà a poco a poco insanabile.
Il secondo nucleo presente nella pellicola è sicuramente la figura del padre, messa a nudo in ogni angolo. In rapporto alla moglie, la remissiva e religiosa Rose, che mancherà di tirare fuori le unghie all’annuncio dell’infedeltà coniugale del suo uomo.
Emerge con prepotenza la difficoltà delle dinamiche di coppia, in cui ambo le parti sono chiamate a rinunciare ai propri spazi in favore della vita comune, e a palleggiarsi gli strascichi del pregiudizio. Subito dopo viene il rapporto con i figli. Scottato da un disastroso trascorso paterno, Troy esercita il suo ruolo genitoriale da una prospettiva di mera sottomissione, investendo il proprio affetto paterno - che nonostante la scorza ruvida c’è e si nota - in una modalità distorta di prevaricazione.
Tutto ciò a dimostrazione della forte influenza che i modelli ricevuti in eredità possono introiettare anche al di fuori della propria volontà, che si ripercuotono anche a distanza di una generazione.
Il terzo e ultimo focus riguarda il trascorrere del tempo, che erode le proprie certezze e precipita nell’incomunicabilità a tenuta stagna fra gli stessi membri di una famiglia. Troy soffre ancora dei postumi di un’infanzia resa infelice da una segregazione razziale fortissima, e questo limite gli impedisce di accorgersi del lento ma progressivo trasformarsi della condizione afroamericana. Certo, la Pittsburgh di metà anni Cinquanta è ancora lungi dall’essere imbevuta dello spirito del reverendo King, ma nonostante tutto sono anni di timidi ma significativi miglioramenti della condizione dei neri.
L'eccessivo legame del protagonista ad un’epoca passata gli impedisce di comprendere le esigenze dei suoi figli: non avendo ricevuto amore dal padre, è incapace di vedere nel suo compito genitoriale altro che possa essere al di fuori delle responsabilità materiali. Egli cresce, ma non alleva i suoi figli. Anche la tardiva passione che scoppia nel corso del film, con l’irruzione della sua amante e successiva gravidanza, si dimostra effimera e improntata al dovere, piuttosto che all’affetto sincero. E questa liaison costituirà l’inizio della sua discesa nelle tenebre.