Nel corso degli anni, con lo sviluppo tecnologico e dei social media, ci siamo abituati ad osservare ogni tipo d’ immagine: incidenti, risse, omicidi e suicidi; il tutto rigorosamente filmato e caricato on-line. Per giungere a noi significa che qualcuno era sul luogo ed innanzi ad una violenza, o ad un abuso, invece di intervenire o chiamare i soccorsi, ha tirato fuori dalla tasca il suo smartphone e ha sentito il bisogno di registrare tutto.

La lista di questi episodi è davvero lunga e basta dare uno sguardo alle centinaia di video girati sul luogo di un'attacco terroristico, o alla morte dell’infermiera romena lasciata agonizzante tra l’indifferenza generale. Il caso dello youtuber Logan Paul, il quale posta sul suo canale Youtube un video dove scimmiotta il corpo di un ragazzo suicidatosi poco prima, o il caso del 29enne di Rimini che, trovandosi sul luogo di un incidente rivelatosi mortale, inizia una diretta su Fb chiedendo al suo pubblico: ‘ chiamate i soccorsi’, sono solo gli ultimi in ordine cronologico. Il filo che accomuna tutti questi filmati è la volontà di essere protagonisti senza agire e la totale assenza di empatia, sensibilità e altruismo, nei confronti della realtà che scorre sotto i nostri occhi.

Non voglio soffermarmi sulla vicenda di Logan Paul perché, più che altro, sembra un bambino con un giocattolo tra le mani che non comprende la differenza tra la realtà di un suicidio e un videogioco e di conseguenza non merita nemmeno attenzione. Il ragazzotto di Rimini, invece, è un esperto d’arte candidato alle elezioni politiche e neanche il suo nobile lavoro, il quale avrebbe dovuto insegnarli un minimo di sensibilità nei confronti della bellezza, è riuscito ad opporsi al richiamo dell’ego che vuole soddisfare il suo pubblico e quindi ha iniziato quella macabra diretta su Fb, chiedendo agli amici: 'chiamate i soccorsi'; loro, perché lui era troppo impegnato a registrare la scena per chiedere aiuto.Parlo di ego perché se, avanti ad una persona che ha bisogno d’aiuto, non facciamo altro che filmare, siamo in balia del nostro ruolo di ‘attori protagonisti’, anche se indiretti, ed è cosa nota che gli attori ed i protagonisti, per essere tali, devono avere un pubblico, cosa ancora più nota: l’ego è la parte centrale di questo processo.Molti studiosi contemporanei per provare a dare una risposta a questi comportamenti apparentemente senza senso, si rifanno alla teoria dell’attore – spettatore a cui noi tutti, siamo ormai più che abituati.

Con la diffusione capillare dei social network, siamo tutti calati nel doppio ruolo di spettatori e attori: siamo spettatori nella misura in cui “osserviamo” le vite dei nostri “amici” e nel contempo siamo noi stessi attori, con un pubblico e con un’approvazione sociale che svanisce quando usciamo dai social; un cane che si morde la coda. La questione, forse, ha radici più profonde e la si può rintracciare in una teoria del 1964.

L’effetto spettatore

Gli psicologi sociali John Darley e Bibb Latané, hanno iniziato ad interessarsi a questi comportamenti sociali nel 1964, quando una ragazza di New York venne brutalmente uccisa fuori casa, sotto lo sguardo dei vicini del quartiere: nessuno di loro intervenne, né chiamo la polizia.

L’inerzia degli spettatori a quell’omicidio scosse molto l’opinione pubblica, ma per i due studiosi non era nulla di sorprendente: secondo la tesi dell’effetto spettatore, più persone osservano un evento violento, meno probabilità ci sono che qualcuna di loro intervenga; perché la responsabilità dell’azione si distribuisce su tutti i presenti, attenuando il senso di colpa di ognuno. La via intermedia, tra l’agire e l’essere uno spettatore nel mondo contemporaneo, è data dalla diffusione via social: secondo le tesi dei due psicologi, diffondendo le immagini diamo il nostro contributo alla vittima, senza agire. Un compromesso quasi perfetto, se non fosse che la responsabilità collettiva è un’illusione, come ha dimostrato ampiamente Hannah Arendt nei sui scritti politici, perché esiste solo ed esclusivamente la responsabilità personale dell’azione.

Se vogliamo aiutare qualcuno in difficoltà, dobbiamo lasciare lo smartphone in tasca, mettere da parte il doppio ruolo di attore - spettatore, alla ricerca di approvazione tramite qualche like, e agire. In questo modo, forse, riusciremo a riscoprire una parte più profonda del nostro Io, dove risiedono la sensibilità e l’empatia: ‘ La visibilità è una trappola’, firmato: Michel Foucault.