Dopo ben sedici ore di ritardo, dal previsto orario d'inizio, alle 4 del mattino di lunedì 29 gennaio 2018, la direzione del Partito Democratico è riuscita, faticosamente, ad approvare le liste definitive dei candidati alle Elezioni politiche del 4 marzo. Un qualcosa che, per durata e risultati, potrebbe essere paragonabile (pur con le dovute proporzioni di causa ed effetto) alle riunioni per organizzare, in ogni dettaglio, lo sbarco in Normandia, il famoso D-Day.
Stavolta ci si prepara allo sbarco elettorale. Attenzione, però, tra sbarco e sbraco è solo una questione di spostamento di una lettera!
Il Pd-Day
Come al solito (consuetudine accertata da quando l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi è alla guida di quello che una volta era il partito della sinistra) la battaglia vera e propria, più che contro gli avversari politici, si è svolta all’interno dello stesso partito, tra il console toscano e i suoi legionari (o sarebbe meglio definirli cortigiani?) e una minoranza sempre più minoranza, oramai quasi eterea, ai limiti del fiabesco e commovente, composta dai soliti Gianni Cuperlo, Andrea Orlando e Michele Emiliano.
Battaglia per modo di dire, visto l’inconsistenza degli avversari e che, come al solito, nel Pd di marca renziana non si discute né si dibatte, ma ci si attiene agli ordini dell’uomo solo al comando, al secolo Matteo Renzi. Salvo poi che, lui stesso, vada in televisione a dichiarare ‘Questa è una delle esperienze peggiori, una delle esperienze più devastanti dal punto di vista personale che abbia vissuto’
Che la minoranza faccia la oramai solita, sterile e patetica sceneggiata era da mettere in preventivo. Orlando, Cuperlo ed Emiliano torneranno, in nome della vituperata ragione di partito, con la coda nelle gambe, a occupare il loro posto nell’ovile. Orlando, avendo conosciuto la sua candidatura in Emilia Romagna (lui che è ligure), l’ha già fatto ‘Ho appreso dove ero candidato ieri sera alla presentazione delle proposte di candidature.
Non è il momento di fare ulteriori polemiche’. Cuperlo dichiara ‘Io non mi candido’. Michele Emiliano ha dovuto digerire il confinamento di Dario Ginefra in un collegio plurinominale con scarse possibilità di elezione.
Sorprende, in vero, che a non votare le liste ci siano stati esponenti del governo come Marco Minniti, irritato per l’esclusione di esponenti come Nicola Latorre (‘Scelti i fedelissimi al capo. Io? Ognuno ha il suo stile’) e che un ministro come Carlo Calenda abbia chiaramente affermato che: ‘Il Pd non candida gente seria’. In Sicilia, rifiuta la candidatura proposta Peppe Provenzano 'Stanotte, in direzione del Pd, dopo una giornata gestita in modo vergognoso dai suoi vertici, ho appreso di essere stato inserito nella lista plurinominale di Agrigento-Caltanissetta, al secondo posto.
Ho ringraziato e declinato’. Passano le ore e il malcontento monta e coinvolge non solo pezzi grossi, ma anche le singole segreterie regionali. In Veneto viene chiamata un assemblea urgente, mentre forti proteste giungono dalla Puglia, dove viene occupata la sede, e dalla Sicilia.
Lo sbarco dei paracadutati
Le liste del Pd sono il classico esempio di paracadutati in seggi tranquilli per voti sicuri. Questo il senso della candidatura di Maria Elena Boschi, talmente sicura di avere sempre ‘lavorato per il bene del mio territorio’ da non voler disturbare ulteriormente Arezzo e cercare rifugio tra le tranquille montagne di Bolzano e in qualche collegio proporzionale siciliano. Oppure quel Roberto Giachetti, che solo qualche giorno fa vergava sui social il suo malessere contro alcune decisioni del suo segretario, salvo poi prendersi la candidatura a Sesto Fiorentino con tanto di deroga, dato che aveva superato il limite dei tre mandati.
Si sa, per la patria, e la poltrona, questo e altro. Lasciamo correre i casi di patria podestà, come a Salerno, dove Vincenzo De Luca ha imposto la candidatura del figlio. Oppure casi di nepotismo, come la candidatura di Giuseppe De Mita, nipote di Ciriaco, alla faccia della rottura con i vecchi ponti e delle ideologie.
Poi ci sono i paracadutati infiltrati , cioè quelli che, pur scavando a fondo, non riesci a capire cosa abbiano in comune con il PD e la sinistra in generale. In alcuni casi, vedi Pier Ferdinando Casini, ti ricordi che è stato presidente della Commissione Banche, voluta da Renzi, e riesci anche a capire la sua candidatura a Bologna, con gli elettori del Pd che dovranno, per forza di cose, turarsi il naso.
Sorge il ragionevole dubbio che Matteo Renzi, dopo aver perso roccaforti rosse come Livorno, Torino, Genova, punti al poker!
E mica finisce qui! Luigi Manconi, Nicola Latorre ed Ermete Realacci sono solo alcuni dei nomi storici del Pd ‘fatti fuori’ dal segretario di un partito che, di comunista, ha conservato, a quanto pare, solo le purghe. Sono invece entrati l’ex Forza Italia, Guido Viceconte, sottosegretario nei governi Berlusconi, e Paolo Alli, braccio destro di Roberto Formigoni alla regione Lombardia. E’ il caso di dire, forse, che la trasmutazione è opera compiuta!
Finalmente rottamatore
La scure di Matteo Renzi, non c’è che dire, si è abbattuta pesantemente. E, a pulirgli la lama, si deve essere prestata Maria Elena Boschi, la quale qualche sassolino nelle scarpe doveva pur toglierselo!
C’è una logica, comunque anche condivisibile politicamente, nel fatto che il capo di un partito cerchi di assicurarsi che, su un potenziale di circa 200 poltrone tra Camera e Senato, oltre 160 saranno occupate da fedelissimi. Questo alla faccia delle esigenze di un partito, di una parte di popolo votante e del lavoro sul territorio dei militanti. Tra le tante promesse non mantenute, bisogna però ammettere che Matteo Renzi ha mantenuto quella di diventare un rottamatore! Pazienza se poi ha incominciato col partito del quale è segretario!