Due sono sempre stati i grandi demoni da combattere per il celebre Oscar Wilde: la superficialità e la noia. «La superficialità è il difetto supremo. Tutto quello che si riesce a capire a fondo è giusto» – scriveva nel De Profundis – e con molta probabilità Rupert Everett con il suo The Happy Prince ha fatto in modo che i tanto temuti demoni dell’autore irlandese avessero la meglio. Il film – di genere drammatico, e dal carattere storico, biografico, diretto da Rupert Everett, con quest'ultimo e Colin Firth, uscito nelle sale il 12 aprile – racconta gli ultimi anni di vita di Wilde e lo ritrae tramortito e sofferente tra volontà di rinascita e rassegnazione.

Descrive la sua tormentata relazione con Lord Alfred Douglas e le sue fughe attraverso l’Europa. Lo spettatore rimane quasi stordito dinanzi all’inedito irlandese francisé di Rupert Everett – che in questa occasione veste i panni del celebre scrittore – e quasi vorrebbe lasciarsi persuadere da quella immagine compiaciuta e quasi caricaturale dell’autore de Il ritratto di Dorian Gray.

La sceneggiatura.

L’attore de « Il matrimonio del mio migliore amico » cita o tenta di citare, a più riprese, il De Profundis, in un giro incalzante di immagini angoscianti offerte dai continui flashback che rinviano alla prigionia nel carcere di Reading, ma, nonostante questo, la sceneggiatura del film sembra trascurare la maestria ineguagliabile con la quale Wilde padroneggiava la parola, ed il suo stile aulico ed epocale.

Infatti si rimane increduli di fronte alla quasi banalità e alla scontata retorica delle battute del protagonista. Non si possono incollare sulla bocca di Wilde parole quasi prive di bellezza stilistica, attingendo da un repertorio povero ed estremamente poco ricercato; no, non si può operare una menomazione tanto grave, da un punto di vista formale e contenutistico, del pensiero di uno dei più grandi scrittori dell’epoca vittoriana, poiché si rischia di compiere un sacrilegio.

Inoltre i luoghi vissuti dal protagonista – come Napoli e Parigi – vengono rappresentati come semplici cartoline appiattite e sbiadite, lo slancio realistico e la scelta dell’uso delle lingue originarie (napoletano e francese) non restituiscono in nessun modo la singolarità e la peculiarità di queste città – testimoni rumorose della caduta – in cui il protagonista ha vissuto i suoi ultimi anni di vita.

Merita infine ricordare che Wilde continuò, anche se con molto fatica, a scrivere dopo la prigionìa, infatti pubblicherà nel 1898 La Ballata del carcere di Reading, ma questo dato non emerge chiaramente nel film.

Il Genio

L’esistenza del Dandy irlandese, che attraverso il processo e la successiva prigionia venne scaraventato giù dal «piedistallo irreale», diventando in breve tempo il pagliaccio dell’intera era vittoriana, è stata un intreccio di sospiri e di lacrime, un insieme di asimmetrie, successi, ingiustizie e di contrapposizioni marcate tra amori puri e assoluti da un lato, e passioni anarchiche e perverse dall'altro. Una figura straordinaria, quella di Wilde, che non è mai stata sfiorata dallo spossato venticello della mediocrità, e che ben si ricollega alla descrizione immaginata da Arthur Schopenhauer per definire la genialità: «Il genio è incapace di far fronte ai bisogni della vita comune, è sempre fuori posto, è misconosciuto, deriso, posposto a schiere di mediocri; egli ha sempre nostalgia di un altro mondo, del suo mondo a cui vorrebbe ritornare, è l’eterno fanciullo che contempla la realtà circostante e si perde in essa».

E a fronte di ciò la ricostruzione messa in atto da Rupert Everett (regista) appare inevitabilmente forzata, sommaria e a tratti esasperata, mentre la sua prova attoriale sembra troppo compiaciuta ed esteriore. Probabilmente molti registi e attori accarezzano il sogno di raccontare ed interpretare la caduta di alcuni giganti, ma quando poi si tentano tali operazioni bisognerebbe sempre tenere presente un dato incontrovertibile: accostarsi al genio non rende geniali, ma, al contrario, può significare misurarsi, spesso, col rischio di evidenziare ancora di più la propria limitatezza.