L’analisi probabilmente più accurata e precisa della drammatica giornata elettorale vissuta negli USA è stata fornita da Michael Moore, già autore di diversi film che hanno mostrato al mondo i lati oscuri e le contraddizioni dell’America a stelle e strisce.
In un suo articolo, scritto prima delle elezioni, egli identifica cinque fattori che, analizzati a posteriori ed in maniera critica, possono essere considerati come cause fondamentali della cocente sconfitta subita dalla favorita Hillary Clinton.
Il primo fattore riguarda il voto nella regione del Midwest.
Moore aveva correttamente previsto che l’attenzione del tycoon si fosse concentrata sulla regione dei Grandi Laghi: Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin. Essi, seppur di tradizione democratica, hanno visto, dal 2010, ascendere dei repubblicani a governatori dei rispettivi stati. La strategia di Trump, che ha accusato in quasi ogni dibattito la rivale democratica di avere firmato o comunque appoggiato accordi non favorevoli a queste regioni nell’ambito del NAFTA, ha pagato e alla grande.
Si sa che ovunque, ma soprattutto in America, il fattore economico è un aspetto fondamentale, capace di spostare voti in maniera massiva.
Il secondo punto il regista lo ha attribuito a quella sorta di ‘paura’ dell’uomo bianco statunitense, maschilista e timoroso di un cambiamento troppo veloce, di perdere potere in maniera irreversibile, a favore delle minoranze. La diffusione in maniera costante di questo timore sui diversi strati sociali della popolazione ha spinto alcuni americani ad essere più conservatori del solito, convincendoli a votare per Trump.
Anche se questa motivazione sembra surreale, essa non va affatto minimizzata, in primo luogo perché effettivamente esiste ed in secondo luogo perché gli elettori votano spesso non tenendo in debito conto le proposte concrete dei candidati, né l’effettiva possibilità di realizzarle, bensì facendosi guidare dalle emozioni ed esprimendo un cosiddetto ’voto di pancia’.
Il terzo fattore forse è il più pesante di tutti, perché ha un nome e un cognome ben preciso: Hillary Clinton. In effetti, anche molti democratici avrebbero probabilmente preferito Bernie Sanders alla ex first lady, accusata di essere rappresentante delle lobbies e dei poteri forti e soprattutto con una popolarità da tempo in picchiata. Da Segretario di Stato ha avuto forti responsabilità ed un ruolo di primissimo piano che l’hanno portata però anche a commettere anche alcune scelte quanto meno discutibili, soprattutto in politica estera.
Gli americani, persino i repubblicani, non hanno mai dubitato della preparazione della Clinton; tuttavia, si è diffuso così nell’elettorato, un atteggiamento di diffidenza verso di lei, giudicata poco adatta a difendere gli interessi di tutti; accuse queste perfino più pesanti delle ignobili ed infamanti dichiarazioni di Trump verso gli immigrati e soprattutto verso le donne.
Il quarto fattore è sostanzialmente figlio del terzo, e cioè il desiderio sfumato di molti democratici di vedere Sanders come candidato ideale e non la Clinton. Qui Moore parla di una tipologia di elettore, il votante ‘depresso’ che, sostanzialmente scontento del candidato proposto, molto spesso decide di non votare oppure sceglie un terzo candidato, giocando così a forte sfavore del candidato designato dal proprio partito.
In ultimo si è verificato l’effetto ‘Jessie Ventura’. Con questo termine si analizza di nuovo dal punto di vista psicologico l’elettore che, sentendosi solo e non osservato nel cubicolo del seggio elettorale, viene spinto dalla voglia di scrivere qualcosa di ‘particolare’, che sia esso un insulto, un voto di protesta che lo faccia sentire protagonista e ribelle, in un giorno così importante e carico di pathos.
Tutti questi fattori hanno reso possibile l’impossibile, e servono da lezione per tutti, perché sono ripetibili ed adattabili, soprattutto quando entra in gioco la sfera emozionale dell’individuo.
Vedremo cosa accadrà da noi molto presto.