L'Italia occupa il 73esimo posto nella classifica della libertà di stampa, una posizione molto bassa per un Paese come il nostro, dove la libertà di parola è garantita dalla legge. La commissione Antimafia si è occupata del problema, per capire quali ne siano le cause. Alla fine di un lavoro durato un anno, la commissione ha reso nota una relazione che descrive una situazione abbastanza preoccupante.
Il lavoro della Commissione
A capo dei parlamentari che hanno analizzato la situazione della libertà di stampa nel nostro Paese c'è Claudio Fava, figlio di un giornalista assassinato dalla mafia nel 1984. Il Fatto Quotidiano ha pubblicato prima di tutti i risultati del lavoro di Fava e di altri componenti della commissione Antimafia, risultati che descrivono un Paese in cui la libertà di stampa non è così scontata come ci si aspetterebbe. La relazione è frutto di numerosi colloqui con giornalisti, direttori di giornale e magistrati, dai quali emerge che non solo la criminalità organizzata a volte si intromette in ciò che viene pubblicato cercando di censurarlo, ma anche, fatto ancor più grave, che spesso sono i giornali stessi a censurare i proprio dipendenti, senza che mafia, camorra e 'ndrangheta debbano scomodarsi ad uscire di casa.
I reporter sono stati in più casi minacciati, tant'è che l'Italia batte il record di Paese occidentale con più giornalisti sotto scorta. Se poi ai giornalisti minacciati fisicamente si aggiungono quelli censurati dai loro stessi direttori o editori, il quadro diventa decisamente preoccupante.
I casi
Uno dei protagonisti di questo triste spettacolo è Ciancio, attualmente indagato dalla magistratura per concorso esterno con la mafia, che possiede azioni del Giornale di Sicilia e della Gazzetta del Mezzogiorno. Sarebbe stato proprio Ciancio a permettere che Pippo Ercolano rimproverasse il giornalista Concetto Mannisi all'interno della redazione, poiché Mannisi lo aveva definito un boss mafioso, o ad avvallare la pubblicazione di una lettera scritta dal carcere di Vincenzo Santapaola, boss mafioso sottoposto al 41bis.
E questi sono solo due esempi, Ciancio sarebbe coinvolto, secondo la commissione, in molti altri casi in cui la criminalità organizzata ha influenzato fortemente la diffusione di notizie.
Ma non sono solo i giornali ad essere finiti sotto l'influenza di Ciancio: anche la rete televisiva di Catania Telecolor ha dovuto fare i conti con questo personaggio. Tutti i giornalisti infatti sono stati licenziati in tronco quando hanno rifiutato la proposta di Ciancio di smettere di occuparsi di informazione, per lasciare l'argomento all'agenzia Asi, da lui fondata e che aveva come presidente sua figlia Angela.
Passando poi alle influenze della camorra, emblematico è il caso in cui il boss Francesco Schiavone scriveva una lettera alla Gazzetta di Caserta, pubblicata integralmente, con la quale si complimentava con il giornale e affermava di preferirlo a quello concorrente, il Corriere di Caserta.
In Calabria poi, il giornale Calabria Ora compie una serie di campagne denigratorie nei confronti dei collaboratori di giustizia, o licenzia i giornalisti che parlano troppo esplicitamente di 'ndrangheta, come nel caso di Musolino, prima trasferito e poi licenziato, e infine messo sotto scorta a causa di gravi minacce nei suoi confronti. “Sono andato lì a fare il direttore, non il poliziotto” è la risposta del direttore Sansonetti alla domanda della commissione che voleva sapere se fosse preoccupato per l'incolumità di Musolino.