"Fatima" è stata rinviata a giudizio per terrorismo internazionale. La sorella è stata condannata a 5 anni e 4 mesi di reclusione. Alla sbarra anche il padre delle due ragazze. Questa la decisione del giudice per le udienze preliminari di Milano, Donatella Banci Buonamici. Si tratta della prima "foreign fighter" arruolata nell'Isis che subisce un processo penale in Italia.
Per Marianna Sergio la condanna ad associazione finalizzata al terrorismo
Associazione con finalità di terrorismo, questo il capo di imputazione mosso dall'accusa nei confronti di Marianna Sergio, sorella di Maria Giulia "Fatima" Sergio. Il giudice ha dunque accolto le richieste del procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, e del pubblico ministero Paola Pirotta. Nel procedimento che è stato celebrato con il rito abbrevuato, sono stati condannati anche Arta Kakabuni e Baki Coku, rispettivamente a 3 anni ed 8 mesi e 2 anni ed 8 mesi di reclusione. Sono gli zii di Aldo Kobuzi, il marito albanese di "Fatima" che si troverebbe in questo momento con lei in Siria, anche lui arruolato nelle milizie jihadiste.
'Fatima' è ufficialmente latitante
Il processo nei confronti di Maria Giulia Sergio inizierà il prossimo 13 aprile dinanzi la Corte d'Assise di Milano. La giovane jihadista è dunque, ufficialmente, latitante. Secondo quanto raccolto dall'impianto accusatorio, la ragazza originaria di Torre del Greco, in provincia di Napoli, dopo il suo trasferimento ad Inzago, nel milanese, si sarebbe prima convertita all'Islam e sarebbe successivamente partita per la Siria insieme al marito per abbracciare la causa dell'Isis. Dal Medio Oriente, in base a quanto emerso da una intercettazione telefonica, avrebbe incitato i genitori e la sorella a raggiungerla. La madre, arrestata lo scorso luglio, è deceduta qualche mese fa.
Nell'ambito del materiale raccolto dai pubblici ministeri anche l'esultanza di Fatima dopo la strage al periodico satirico francese Charlie Hebdo: la ragazza si era dichiarata pronta a morire in nome della sua causa.
Dubbi sul 'pentimento' di Meriem Rehaily
"Non è vero quelo che dicono i giornali". A parlare è Redouane Rehaily, padre di Meriem, la giovane cyber-jihadista che avrebbe chiamato i parenti dichiarandosi "pentita" di aver fatto sua la causa dell'Isis ed il cui caso è stato reso noto pochi giorni fa. L'uomo smentisce di aver avuto contatti con la figlia e sottolinea la sua paura per "false affermazioni per le quali ora Meriem potrebbe rischiare di morire". La presunta telefonata di Meriem resta dunque un mistero, anche perchè dal padre della giovane giunge la secca smentita di averla sentita in questi mesi.
"Non abbiamo altri parenti in Italia - ha spiegato - e pertanto non c'era nessuno con avrebbe potuto mettersi in contatto". Ma in realtà, dopo la fuga di notizie che probabilmente dovevano restare riservate, ora Redouane Rehaily teme per l'incolumità della figlia.