Per capire le cause reali delle guerre che attualmente si combattono in Africa e nel Medio-Oriente bisogna prescindere dalle motivazioni religiose. Anche oggi, infatti, i motivi sono economici e, in tale fase, relativi al controllo di due materie prime, sempre più scarse e sempre più necessarie: il petrolio e il gas. I maggiori esportatori di petrolio e di gas del mondo sono i paesi che si affacciano nel Golfo Persico, di credo islamico, ed è per questo che le guerre attuali, in questa parte di mondo, sono mascherate da guerre di religione.
A partire dalla prima crisi energetica (determinata dalla Guerra del Kippur, 1973), l’Arabia Saudita, islamica di confessione sunnita, ha accumulato una esorbitante liquidità in petroldollari, a fronte di una popolazione limitata (30 mln di abitanti oggi). Ugualmente gli altri paesi del Golfo (Qatar, Dubai ecc.).
Con la seconda Guerra del Golfo, gli Stati Uniti hanno preso il controllo delle fonti di produzione del petrolio dell’Iraq (in parte sciita e in parte sunnita) e, successivamente, hanno isolato il secondo potenziale esportatore di petrolio, l’Iran, con quasi 80 milioni di abitanti da sfamare, di confessione sciita. A questo punto, la posizione della Siria, è divenuta strategica, perché al suo interno si andavano a confrontarsi due rotte energetiche, incompatibili tra loro: la prima alimentata dal gas e dal petrolio proveniente dall’Iran e dall’Iraq, sino al Mediterraneo; la seconda proveniente dalla penisola arabica, attraverso la Giordania e per proseguire sino in Turchia, per giungere in Europa.
Il filo-iranico Assad, ovviamente, privilegerebbe la prima, a scapito della seconda. Ecco che, nell’ottica arabo-statunitense, Assad va tolto di mezzo: gli USA hanno preso a sponsorizzare i ribelli anti-Assad della Siria occidentale e i paesi arabi a finanziare l’ISIS, per bloccare il corridoio gas-petrolifero iranico. La Russia, invece, ha necessità di rendere sicure le rotte per l’esportazione in Europa della sua produzione di gas. Ecco che, l’anno scorso, ha messo i piedi nell’Ucraina orientale e in Crimea. Ma ciò non è bastato, perché l’embargo decretatole dalla comunità internazionale l'ha costretta ad abbandonare il progetto del gasdotto South Stream, che sarebbe dovuto passare per il Mar Nero e la Bulgaria, per giungere fino a Vienna e Trieste.
Ecco che Putin, lo scorso dicembre, nel corso della sua visita ad Ankara, ha annunciato l’accordo con Erdogan per il Turkish Stream, un gasdotto alternativo che, dai fondali del Mar Nero, sarebbe approdato a Kiyikoy, nella Turchia europea.
E’ stato il colpo di grazia che ha fatto calare ai minimi termini l’affidabilità della Turchia, agli occhi degli Stati Uniti. E, guarda caso, è cronaca di poche settimane fa, il tentativo di colpo di Stato militare che avrebbe potuto togliere di mezzo l’inaffidabile Erdogan. E’ improbabile, infatti, che il Pentagono, che lavora a stretto contatto con l’esercito turco nelle basi militari NATO di questo paese, non conoscesse le intenzioni dei militari “golpisti”. Non a caso, infatti, la reazione di Erdogan, nei confronti degli Stati Uniti e degli altri alleati NATO è stata (almeno verbalmente) furiosa.
Le altre due aree oggetto delle guerre condotte dagli integralismi islamici sunniti sono la Libia e la Nigeria, cioè altri due grossi produttori di petrolio, ma anche di gas metano (la Nigeria).
In questi due paesi, Daesh e i guerriglieri fondamentalisti di Boko Haram avranno ragione di essere sin quando non confliggeranno con gli interessi delle grandi compagnie multinazionali di approvvigionamento del gas e del petrolio. Sono queste due risorse, sempre più scarse e sempre più necessarie, che determinano, oggi, i destini del mondo.